D. arrivava verso le undici di
sera alla ‘Locanda’. Era sempre fumato. La sua pelle, i suoi vestiti
rigorosamente neri, i suoi capelli, tutto era avvolto da una nuvola aromatica.
Salutava con gentilezza l’oste e attendeva il suo benestare bevendo un
bicchierino. Ricevuto il cenno di consenso ringraziava, si dirigeva nella sala principale
quando ancora i clienti erano seduti ai tavoli per il fine cena e si accomodava
al piano. Indossava come fosse un rito i suoi occhiali scuri, dondolava un po’
sul seggiolino cullando un’idea, alzava il mento inspirando e iniziava ad
appoggiare le dita sui tasti. D. non sapeva suonare il piano, ma lo suonava
ogni sera, alla ‘Locanda’. Nessun cliente si è mai lamentato. Quei suoni
garbati erano musica, la sua. Accarezzava i tasti con una delicatezza che
faceva a pugni con la sua corporatura robusta e con le sue mani rozze, accompagnando
le note con movimenti ondeggianti del corpo. Era visibilmente trasportato
altrove da quella musica. Quel suo stato di grazia andava avanti per ore, di
solito fino alla chiusura. Una notte gli ho scattato una foto al di là del
vetro. Ne è uscita un’immagine sfocata, una specie di scia umana in bianco e
nero, al pianoforte. Agli amici è rimasta la sua scia. Lui se ne è andato.
(28/08/16 dieciminutichenonsosedureranno)
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