S o l i n

Il cielo è un azzurro pulito. Il sole pulsa. Ogni elemento prende forma netta, all’orizzonte. Si intravedono in lontananza perimetri di ieri sulla vallata ingiallita e un vuoto intermittente: antica sapienza del costruire, enormi massi sull’erba secca. Il mio andare è sempre uguale, meditativo. Supero una colonia di formiche che gira attorno a un piccolo arbusto e procede verso un cumulo di pietre ostinate. L’ombra mi segue e fa quello che ho fatto. Passi sui sassi. Distese di ulivi segnano i confini verso sud. Arsura di pieni rocciosi, alle spalle. La camminata è lunga, a tratti in leggera salita. L’aria è ferma. L’assedio delle cicale è costante. Sono l’unica visitatrice nel nulla, poco dopo le otto del mattino. Fa già molto caldo. Mi fermo a togliermi la maglietta. La piego meglio che posso e la metto dentro allo zaino. Poi infilo la canotta e rimango qualche minuto all’ombra di un cespuglio, nei pressi dei resti della Basilica cimiteriale. L’area archeologica è vasta e nel percorso per raggiungere i siti fotografo resti di lapidi, iscrizioni, sarcofagi. Per un momento, ripenso ad alcune amicizie che non ho più. Mi avevano dato un soprannome per il mio pallore, quello ‘scoperchiate’ allusivo alle tombe. Riderebbero se sapessero dove mi trovo. Raggiungo l’anfiteatro e lo percorro sostando più a lungo nei punti al riparo dal sole. E’ imponente. Mi godo il silenzio secco. Cerco di cancellare mentalmente la presenza di un allestimento per spettacoli, un palcoscenico in legno sorretto da una struttura di tubolari in ferro. Guardo a lungo, leggo un po’. Scatto ancora un paio di foto e riprendo il cammino per raggiungere gli altri siti. E’ passata circa un’ora dal mio ingresso all’area archeologica. Il caldo mi mette alla prova. Ho la testa bollente, la pelle del viso scotta. Sudo. Arrivo in prossimità dell’area dove si trovano i resti delle Basiliche del Centro Episcopale. Il ground-plan non lo prevede, ma mi imbatto in un disco di legno del diametro di circa mezzo metro incastrato a terra, in piedi, tra le pietre. Mi avvicino e leggo le poche lettere scritte a pennello in verde: Bar open. Bar aperto. E dove? Non c’è nulla qui. Alzo la testa e punto lo sguardo verso una siepe che disegna un angolo. Effettivamente non vedo cosa ci sia oltre, così mi avvio all’estremità del vialetto che la costeggia e vi trovo un’apertura. La geometria mi sorprende. Varco lo stretto passaggio sulla sinistra e scendo due gradini. C’è un grosso cane meticcio a pelo corto, color del miele, sdraiato all’esterno della sua cuccia all’inizio di un filare di ulivi, a destra dell’ingresso, che appena mi vede si alza in piedi ma non si muove verso di me, perché è alla catena. A sinistra dell’ingresso, una pavimentazione leggermente sconnessa in pietra ed erba verde conduce verso uno spazio protetto dal sole da un pergolato di vite. Qua e là in una specie di giardino ci sono massi cilindrici simili a parti di colonne, pietre e pezzi di tronchi come sgabelli, alcuni con una pietra liscia rettangolare posata sopra come piano d’appoggio. Adocchio uno spazio in ombra protetto dal sole da un pergolato di vite, e attrezzato con due tavoli in legno in fila, uno laccato verde e l’altro in legno naturale, sedie e panche una diversa dall’altra. Sulla sinistra, sempre in ombra, vi sono un camino in pietra e sassi, un lungo piano d’appoggio anch’esso in pietra bianca, una struttura che potrebbe somigliare a un forno rudimentale con sportellino in metallo, sopra al quale, un po’ nascosta dalle foglie della siepe, è posizionata una cisterna ingiallita che contiene acqua, collegata a un lavandino in pietra da un tratto di gomma piuttosto lercia. In linea con il lavandino, altre rientranze in pietra bianca che formano nicchie di diverse dimensioni. Di fronte, un muretto in pietra costituisce quello che potrebbe essere il bancone di un bar, con sgabelli in metallo dorato, qualche bottiglia, qualche vaso, una radio spenta. Ancora oltre, cataste di legna all’interno di un ricovero a due piani, in pietra e sassi. La pietra bianca crea un riverbero di luce intenso. Mi dirigo a sedermi sotto al pergolato. Un uomo tra i quaranta e i cinquant’anni esce dall’ombra e accenna a un saluto, Welcome!
Mi avvicino e chiedo, Is open?
Yes! Open!
L’uomo è abbronzato, indossa solo un paio di boxer da mare bianchi con fiori arancioni, è scalzo, ha la testa rasata, un orecchino sul lobo sinistro e porta un Tau al collo. Il fisico è tonico. Si muove un po’ attorno, aspetta che io mi sieda. Scelgo di sistemarmi su una panca in fondo al tavolo in legno naturale, perché da lì posso vedere un po’ tutto, fino al campo di ulivi. Chiedo se posso avere un bicchiere d’acqua e un caffè.
Mineral water and turkish coffee, yes! Il suo tono è perentorio, in ogni cosa che dice. Lo sguardo è serio, il sorriso è lieve, la faccia, lievemente malandrina.
Si allontana verso una delle nicchie in pietra vicino al lavandino e lavora un po’. Mi guardo attorno e capisco che quel posto è anche un’abitazione, con uno spazio alle mie spalle stretto e lungo, cieco, sempre in pietra, in fondo al quale vedo un vater per il bagno, circondato da pavimento a soffitto da utensili vari su mensole. Adiacente al bagno c’è una stanza buia del cui interno riesco a vedere solo un letto sfatto con coperte nere. L’uomo arriva al tavolo e mi porta il bicchiere d’acqua e una tazza grande, con il caffè.
I don’t like espresso! Mi dice.
Thank you. What’s your name?
Ivan! I’m a fishman!
A fishman?
Yes! A fishman.
Ci parliamo come fossimo Tarzan e Jane. Si allontana e si dirige verso la cuccia del cane. Lo libera dalla catena e il cane, scodinzolante, corre verso di me. Porta un collare largo, con due file di punte.
His name is Don, as Don Corleone! Mi dice ridendo.
Accarezzo Don che dimostra docilità. Decide di passare sotto alle mie gambe per infilarsi sotto al tavolo, non faccio in tempo a spostarmi che mi striscia le punte del collare lasciandomi un ricordo fisico. Ivan si racconta a tratti. Mi dice che era un addetto all’escavatore in un’azienda edile. Ha fatto quel lavoro per ventidue anni. Poi, basta. Vuole stare in pace. Ogni mattina si alza e va a correre sulla montagna. E il Don sta sempre con lui. Vive di pesca, ora. Accompagna le parole con gesti delle mani e delle braccia. Non sta mai fermo. Sembra un grosso felino in attesa di una preda. Noto che ha due tatuaggi, uno più grande sul bicipite sinistro e un altro sul bicipite destro. Gli chiedo cosa raffigurano.
A shark! And a woman!
The same, dico io provocandolo.
You, said! Mi dice serio puntando il dito verso di me. Poi ride.
Mi bevo l'acqua appena frizzante aspettando che i fondi del caffè si depositino sulla tazza, mentre lui passeggia intorno, prende una ciotola, stacca dei grappoli d’uva nera dalla pergola di vite e me li offre. Quando non si rivolge a me pronuncia continuamente a bassa voce alcune parole guardandosi attorno, come un mantra. Alla fine riesco a sentirle: slow life, white wine, and guitar.
Poi mi si rivolge ancora: You call me for eat fish. Mi porge un biglietto da visita dove c’è un numero di telefono e un’immagine di piatti di pesce alla griglia.
Thank you, dico. Soffio sul caffè per intiepidirlo. Lo bevo a piccoli sorsi. E' buono.
Stacca una grossa conchiglia che si trova appesa con altre dalla parete fatta con una tenda in bamboo vicina al mio tavolo e me la porge, indicandomi di avvicinarla all’orecchio, per sentire il mare. Ascolto ‘il mare’ e gli sorrido.
Mi dice che intende costruire un tetto fisso. Gli chiedo in che modo, e mi risponde che c’è tanto materiale utile lì attorno. Di colpo mi ricordo che ci troviamo nel cuore di un’area archeologica. Poi cambia discorso, May be it rain, this evening.
Is open here in the evening? Chiedo.
Always open, you call me.
Ho finito di bere il mio caffè. Pausa finita. Decido di muovermi. Mi allungo sotto al tavolo e faccio una carezza al Don, che sta dormendo sdraiato. Pago il conto, saluto Ivan con una stretta di mano e lo ringrazio. Allarga le braccia, piega un po’ la testa, See you.

Riprendo la mia camminata sotto al sole cocente, in direzione delle terme civiche. Ancora passi sui sassi. Mi accompagna una nenia del pensiero: slow life, white wine, and guitar.


Nessun commento:

Posta un commento