al mercato

no, non mi va bene ha quella malattia, non so, autistico, si, autistico, volevo andarci ma sono rimasta a casa era dietro di me vado a comperare il pesce guarda che certe volte prego signora ha visto che belle sciarpe? guardi con comodo che puzza ma va, tu senti puzza dappertutto! ti va un po' di formaggio? ciao! ciao! cosa le serve? dario ha avuto una bimba e se lui non viene al corso non vengo neanch'io perchè sono pigra anche perchè se non era per lui lei sarebbe rimasta quella che era, diciamolo lavori? noo, faccio la mamma a tempo pieno, ho due gemelli di quattro anni e mezzo mi sono informata per portarli a calcio forse me li accettano anche se sono magrolini fino ad oggi hanno sempre fatto nuoto avevo pensato alla scherma ma proviamo con il calcio l’anno scorso mi hanno fatto una crisi per il nuoto scappavano dalla vasca e non abbiamo finito l’anno ma non voglio tenerli fermi sennò mi passano il tempo davanti alla televisione e si impigriscono grazie arrivederci ciao

rientro 2

Era sciopero dei treni quel giorno, ma lei non voleva mancare a lezione e voleva vedere quelle foto, così decise di raggiungere Venezia in macchina e andare diretta in galleria. Incontrò Z.K., originaria di Zagabria, curatrice della mostra. Donna altera, viso bianco come cerone, bocca dipinta di rosso, occhi nerissimi, truccati. Vestiva un cappotto nero lungo fino ai piedi, con una sciarpa in seta rossa altrettanto lunga. I capelli erano corti e scuri, pettinati all’indietro con il gel e raccolti da due forcine sulla nuca. Il volto parlava di vita vissuta. Si raccontarono brevemente chi erano. Quando disse che non era di Venezia Z. la guardò seria, e le disse che aveva un volto giorgionesco. Le chiese di lasciare il suo indirizzo di posta elettronica, mentre acquistava il piccolo catalogo delle opere esposte. Prima di uscire, tornò a guardare una foto a colori nella seconda stanza. Un notturno, Gerusalemme dopo lo shabbat. Una veduta di un agglomerato di case e gradini nella notte, con punti luce gialli e azzurri provenienti dalle abitazioni. Poche presenze umane, che si notavano solo facendo attenzione. Si era chiesta se Gerusalemme fosse tutta così, il sabato sera. Z. la raggiunse di nuovo e le chiese se veniva spesso a Venezia. Rispose che ne avrebbe avuta occasione ogni settimana fino al mese di maggio, poichè aveva iniziato un percorso di studi in città. Le strinse la mano per salutarla sorridendole, e le disse: "Buon anno allora, si può dire, siamo ancora in gennaio no?". Uscì e si diresse a lezione.

Pensò che quello era lo stesso tratto di strada che aveva fatto con lui quella sera per andare verso la stazione dei treni. 
L'aveva guardata giocherellando con la bottiglia vuota della birra, la testa leggermente piegata sulla spalla sinistra e un sorriso bambino. "Non andare a casa stasera, sali sul treno con me, vieni a cena a casa mia. Posso offrirti un'ottima mozzarella con pomodori!". Mancavano pochi minuti alla partenza del suo treno. Lui aveva capito al volo che avrebbe accettato l'invito. Una corsa ed erano già su. Erano entrati in uno scompartimento vuoto. Lei aveva fatto qualche passo e aveva scelto un posto più o meno al centro della carrozza. Lui era rimasto un po' indietro, aveva aspettato che lei si fosse seduta e poi aveva iniziato ad avvicinarsi facendo capriole da un sedile all'altro. Si muoveva come un felino, le sue pupille erano pantere, scure come una notte in periferia, il suo sorriso sembrava eterno. Poi si era seduto accanto a lei, ed erano rimasti un po' in silenzio a guardare fuori dal finestrino del treno in corsa. Ad un certo punto le aveva preso la mano che teneva appoggiata sul sedile. Aveva accarezzato le sue dita senza parlare. Lei era rimasta immobile. Non le aveva dato fastidio l'iniziativa, ma non riusciva a decifrare le sue sensazioni al contatto con la sua pelle. In ogni caso, niente che le trafiggesse la carne. Piano, lui tolse la sua mano da quella di lei. Appena scesi dal treno lei aveva voluto fermarsi al bar della stazione, per prendere una bottiglietta d'acqua e fumare una sigaretta. Aveva sentito il bisogno di rallentare. Si erano seduti ad un tavolo all'esterno. Fumava e guardava il muro. Ascoltava la canzone Clandestino di Manu Chao, provenire dalla radio del bar. Nei pomeriggi lunghi che avevano passato assieme al lavoro, lui le aveva insegnato le parole. Era rimasta affascinata dal fatto che parlava quattro lingue, e molto incuriosita da quell'insieme di intelligenza, che lei riteneva superiore, percorso di studi e un aspetto da vagabondo. Quello che aveva insinuato turbamento in lei erano stati gli occhi: immobili, scuri, impenetrabili, portatori di pericolo. Di colpo aveva spento la sigaretta sul posacenere, e gli aveva detto che aveva cambiato idea, che si scusava ma che non voleva proseguire, che sarebbe tornata a casa. Si era sentita stringere allo stomaco, aveva avuto paura. Lui si alzò e le disse che era come se lo avesse sempre saputo. Disse che l'avrebbe accompagnata a casa in macchina, e la pregò di seguirlo al parcheggio. Durante il viaggio lei non era riuscita a parlare, a fargli le sue scuse per come si stava comportando. I suoi pensieri si erano fissati sulla pelle di lui, sul senso di estraneità che aveva provato al tocco, sullo scarto abissale che aveva registrato tra un desiderio tutto mentale e l'approccio fisico. Era successa la stessa cosa quando aveva appoggiato le sue labbra su quelle di lui, un pomeriggio su una panchina. Più che un bacio era stata una carezza stupita. I corpi erano rimasti fermi, paralleli, le mani non si erano mosse a cercare un contatto. Lo ricordava come un attimo di silenzio umido, con lui che l'aveva ringraziata per avergli fatto assaggiare le sue labbra. Era bravo con le parole.
Avevano fatto tutto il viaggio con i finestrini abbassati per il caldo di quella sera. Lui aveva parlato in arabo tutto il tempo al telefono con un amico. Il suono delle gutturali continuava a provocare in lei un senso di piacere, anche se il tono in alcuni momenti le era sembrato duro, quasi scocciato. Arrivati a destinazione gli aveva indicato una stradina secondaria lontana dal centro dove fermarsi. Lui avrebbe voluto bere ancora una birra, ma lei era scesa in fretta dalla macchina, senza avvicinarsi a lui per un saluto. Il tempo era finito. Non l'avrebbe visto più.

Arrivò al civico 1189. Suonò il campanello e rimase in attesa. Sapeva che aprire il portone verde e pesante, percorrere l’atrio al buio, uscire nel cortile interno e rientrare in aula dall’altra parte, faceva si che scattasse in lei l’oblio. Come varcare una soglia oltre la quale rinascere.
Finita la lezione, uscì e si diresse al parcheggio per prendere l'auto, tallonata da un compagno di corso piuttosto invadente. Sentì il bisogno di accendersi una sigaretta, la tristezza iniziava a farsi avanti. Sapeva che i suoi erano pensieri rumorosi, tanto rumorosi che le era capitato una volta in treno di vedere un ragazzino seduto tre posti più avanti di lei voltarsi improvvisamente e guardarla senza dirle nulla, senza che lei avesse detto nulla. La sera a cena bevve un po’ troppo, si addormentò velocemente ma riaprì gli occhi verso le quattro e trenta. Ancora insonnia. 

 



rientro

Era fermo al binario, seduto sul lastricato bollente, quando il rumore improvviso di una frenata gli fece alzare d’istinto le spalle ed abbassare la testa. Vide per un attimo tra la folla le calzature a punta di una donna, simili a pantofole di foggia orientale, che lasciavano scoperto tutto il tallone. Ne scrisse qualche riga sul suo taccuino che richiuse in fretta all’arrivo del treno. Salì e trovò un posto accanto al finestrino. Si sistemò comodamente poiché c’erano solo lui e il suo zaino in quei quattro sedili. Non era riuscito a lavare i suoi jeans quella settimana, puzzava come una panchina dei giardini pubblici, e lo strato di unto che notò sul finestrino non faceva che amplificare quella sua sensazione di disagio. Stava tutto allungato occupando due posti mentre sentiva la stanchezza colonizzare senza indugio intere parti del suo corpo, e guardava fuori dal finestrino. Il treno si mosse presto e iniziò la sua corsa. Ogni volta che tornava con lo sguardo al finestrino c’era sempre qualcosa fuori che ostacolava la vista sull’orizzonte. Lavori in corso ovunque. Aprì per la seconda volta il suo taccuino e ne scrisse qualcosa. Arrivato a destinazione scese dal treno e nonostante la stanchezza decise di fare un tratto di strada a piedi e di prendere l’autobus più avanti. Dalla radio del bar all'uscita dalla stazione arrivava la voce di Manu Chao che cantava Clandestino.
Era lo stesso tratto di strada che aveva percorso con lei quella sera che stranamente aveva accettato un invito a cena a casa sua. La città brillava di una luce gialla che come sempre a quell'ora si depositava piano, l’asfalto emanava calore, il traffico non era più quello delle ore di punta. Erano saliti sul treno, e durante il viaggio le aveva accarezzato la mano per un po', poi aveva smesso, poiché non aveva ricevuto un segnale vero, deciso, di complicità. Appena scesi dal treno lei gli aveva chiesto di fermarsi al bar della stazione per prendere una bottiglietta d’acqua, e aveva voluto sedersi ad un tavolino all’esterno per qualche sorso e una sigaretta. Per rifiutarlo aveva atteso di spegnere la sigaretta, si era voltata verso di lui e gli aveva detto che non voleva proseguire, che aveva cambiato idea. Lui le aveva detto che si sarebbe stupito del contrario, che non c'erano problemi e che l'avrebbe riaccompagnata a casa in macchina. Così avevano fatto un pezzo di strada a piedi, verso la macchina. Lui si era fermato ad allacciarsi una scarpa a metà del ponte che attraversava il fiume, guardando in direzione del centro. “Allora ti riporto a casa, sei sicura?” le aveva detto. Lei aveva annuito con un sorriso di scuse. Anche allora, prima di salire in macchina, aveva estratto il suo taccuino e ne aveva scritto qualcosa. Poi erano partiti. Durante il viaggio erano rimasti a lungo in silenzio. Lui aveva tentato di farla ridere dicendole che si era persa un'ottima mozzarella con due pomodori quella sera, ma aveva avvertito tensione in lei, e poca voglia di divertirsi. Per ingannare il tempo e spezzare quel silenzio aveva chiamato un amico al cellulare e gli aveva raccontato la sua situazione, dicendogli che stava in macchina con un'italiana che non ci voleva stare con lui quella sera, e che doveva pure spendere i soldi della benzina per riportarla a casa. Aveva potuto farlo poiché sapeva che lei non capiva la lingua araba. Erano arrivati a destinazione in circa quaranta minuti. Lei aveva voluto scendere in una strada secondaria, a un paio di chilometri dal centro. Avrebbe continuato a piedi. Lo aveva ringraziato senza nemmeno un bacio e da quel momento non l'avrebbe vista più.
Il suo cellulare vibrò nella tasca. Era un messaggio di una sua amica. Lo lesse senza emozione e riprese a camminare accelerando il passo verso l’autobus che stava per partire. Passando per il centro vide tra i cartelloni pubblicitari un’immagine di donna ricurva su se stessa immersa in una luce blu. Scese alla fermata dell’autobus, e in pochi minuti fu a casa. L’androne del palazzo dove abitava era completamente al buio. L’amministratore non aveva ancora mandato l’elettricista a riparare il guasto. Un po’ di luce sarebbe penetrata ancora per poco dall’unica finestra sul giro scala, ma a lui importava poco, si muoveva bene al buio. Divideva l’appartamento con un suo connazionale che nel tempo libero rimaneva in casa davanti alla tv, spesso dormicchiando, e che doveva sparire ogni volta che lui si portava a casa qualche nuova conquista. Appena entrato in casa gli passò davanti senza svegliarlo, scavalcando cartoni di pizza vuoti ammonticchiati sul tappeto, e si infilò direttamente in bagno per una doccia. La stanchezza prevalse presto sulla fame. Steso sul letto rimase in ascolto del suo corpo che lentamente si arrendeva al sonno. Si sporse un’ultima volta verso il pavimento per bere un sorso d’acqua fresca, e con la mano inciampò sul suo taccuino poco più in là del bicchiere. Lo riaprì per cercare qualcosa. Rilesse anche il messaggio sul cellulare.
Dormiva già.

all'improvviso una veggente

Ce l’aveva sempre davanti agli occhi. Quel viso minuto e scuro era tutto quello che le rimaneva di quell’incontro. Le appariva mentre redigeva i bilanci al lavoro, mentre telefonava, mentre alla sera spegneva l’ultima luce dell’ufficio e si avviava verso la porta. Uno sguardo diretto e fermo, che faceva a pugni con una voce sommessa, e una mano tesa verso la sua, al momento dei saluti prima di andarsene.
Aveva memoria di un unico episodio nella sua vita in cui qualcuno aveva insistito per leggerle la mano: al mare, d’estate, in compagnia di amici. Non aveva gradito neanche allora, perché quella donna sbucata dal nulla aveva azzeccato cose sul suo conto che proprio non poteva sapere. Questa volta era andata diversamente, ma come allora non se l'aspettava. Ogni tipo di anticipazione sulla sua vita non le interessava, e non gradiva che qualcuno o qualcosa di imprevisto si insinuasse nei suoi pensieri senza chiedere il permesso.
Aveva appena terminato di archiviare una pratica nella stanza adiacente al suo ufficio quando qualcuno suonò alla porta. Si diresse ad aprire. Si trovò davanti una piccola donna, anagraficamente indecifrabile. Rimase qualche istante a guardarla e poi si sentì in dovere di invitarla ad entrare senza sapere il perché. Il suo passo era leggero e la sua figura era elegante malgrado il vestito un po’ logoro. Rimase immagata da quel volto segnato da piccole rughe che sembrava parlassero da sole, ognuna raccontando una storia alle altre sconosciuta. Riuscì a riaversi solo quando la donna le chiese di acquistare qualcosa, ed ebbe la sfacciataggine di dirle che le cose che vendeva non le piacevano per niente, che se ci fosse stato un oggetto curioso o utile magari lo avrebbe preso, ma che i centrini all’uncinetto davvero non le interessavano.
Aveva un modo infallibile di rifiutare le persone, poche parole pronunciate con uno sguardo immobile, ma mentre la invitava ad uscire ebbe un’esitazione e fu in quel preciso istante che quella piccola donna la guardò negli occhi ed espresse la sua profezia: “Il ventinove di questo mese ti accadrà qualcosa di bellissimo”. Le fece un sorriso di scherno per togliersela di torno e la salutò chiudendo la porta. Tornò alla sua scrivania e riprese un po' scocciata il suo lavoro. Avvertiva a tratti una curiosità impertinente per un calendario appeso alle sue spalle, un calendario che le aveva regalato un suo amico fotografo, con immagini che riproducevano paesaggi di montagna, ma si sforzava di sopprimere ogni gesto in quella direzione. In fondo non aveva l'abitudine di guardare quel calendario, annotava gli appuntamenti sul suo pc e teneva un'agenda sul tavolo, ma non guardò nemmeno quella. Fu quando spense il computer per la pausa pranzo che lanciò un'occhiata veloce al calendario. Era il giorno nove. Ne mancavano venti, al ventinove del mese.

Nel corso della prima settimana a seguire spesso aveva avuto il bisogno di raccontare quella cosa a qualcuno. Non importava fosse un collega, il marito o un'amica. Poi ebbe un ripensamento. Non poteva continuare a dirlo in giro, chissà cosa avrebbero pensato di lei, la scettica, che si perdeva in chiacchiere per una 'maga'. Ma poi, chi l’aveva detto che era una maga? Raccontarlo a più persone contribuiva certo a creare un’aspettativa attorno a quella data, e finiva che ci si credeva davvero. Decise di smettere di pensarci. Il mattino dopo si svegliò, fece colazione al bar e si diresse al lavoro. Entrando in ufficio si sentì sollevata, potè constatare che dal momento in cui aveva aperto gli occhi non aveva pensato nemmeno per un attimo a quella stupida storia! Si, ne era fuori. Si sistemò alla scrivania e accese il computer, e dato che era un po’ in anticipo aprì il giornale sulla pagina della cultura. Rimase ferma su quella pagina senza leggerne una riga. Analizzò brevemente la sua vita e ne convenne che in fondo tutto si svolgeva in maniera sempre uguale, che si sarebbe accorta se qualcosa stesse per cambiare in modo radicale, che non poteva succedere niente di straordinario.
Guardò ancora il calendario. Era passata solo una settimana Non c’era in programma alcunché per il ventinove di quel mese. Si chiese sorniona se non era il caso di tentare la fortuna alla lotteria. ‘Perché se non giochi non perdi mai, ma nemmeno vinci qualcosa’ si disse.
Nei giorni successivi evitò per scaramanzia di fissarsi appuntamenti importanti di lavoro per quel giorno. Un'amica la invitò a teatro allo spettacolo del ventinove marzo, ma lei rifiutò con una scusa, pensando che se mentre era a teatro succedeva qualcosa a casa non avrebbe potuto esserci. Ma qualcosa cosa? Iniziò a pensare a cosa le sarebbe piaciuto che accadesse se davvero ci fosse stata la possibilità che qualcosa di bello le stesse per accadere. Si accorse che non era allenata ad esprimere desideri, non lo faceva mai. Camminava per la strada e si guardava attorno. ‘Magari sto per fare un incontro che mi cambierà la vita, e tutta la gente che mi passa accanto non lo sa. Forse tutti stanno per vivere un ventinove marzo come il mio e non lo sanno’.
Sentì di stare quasi meglio dopo che aveva pensato questo, ma erano passati altri dieci giorni e ne mancavano solo tre al ventinove marzo. In fondo era come vivere con uno scopo. ‘Mica tutti i giorni possono essere uguali. Allora se uno non si aspetta mai niente dove sta il gusto di vivere? Anche se: nessuna aspettativa = nessun dolore, per tutto quello che non va come vorremmo’.
Una mattina in ufficio tornò a guardare il calendario perché le venne in mente che non aveva visto se il ventinove sarebbe stato un giorno lavorativo. Scoprì che era di domenica. ‘Beh, allora è fatta! Certo non può succedere niente di negativo, questo è sicuro. La mia è la solita domenica. Una sana dormita, pranzo in famiglia, riposino pomeridiano, pomeriggio davanti alla tele, aperitivo con gli amici nel bar della piazza, cena in famiglia, serata davanti alla tele’.
E quella domenica fece esattamente tutto quello che faceva ogni domenica. Ogni tanto tendeva l’orecchio e poi sorrideva. ‘Visto? Non succede proprio un bel niente. Sono tutte balle. Dovevo saperlo. Queste rumene andrebbero sorvegliate, magari lanciano qualche profezia a persone deboli e queste restano sconvolte. Poi si sente alla tele di suicidi apparentemente immotivati, di anziani in fuga senza un perché. Sono cose delicate. Bisogna starci attenti’.
L’indomani entrò in ufficio soddisfatta e come prima cosa lanciò un’occhiata compiaciuta al calendario. Restò di stucco. Si accorse che non era aperto sul mese di marzo, ma era aperto addirittura sulla pagina di luglio, poiché quel calendario non lo guardava mai nessuno, ed era lì solo per le belle immagini con paesaggi. Lo sfogliò con rabbia e guardò la pagina di marzo.
Il ventinove era stato di giovedì.