rientro 2

Era sciopero dei treni quel giorno, ma lei non voleva mancare a lezione e voleva vedere quelle foto, così decise di raggiungere Venezia in macchina e andare diretta in galleria. Incontrò Z.K., originaria di Zagabria, curatrice della mostra. Donna altera, viso bianco come cerone, bocca dipinta di rosso, occhi nerissimi, truccati. Vestiva un cappotto nero lungo fino ai piedi, con una sciarpa in seta rossa altrettanto lunga. I capelli erano corti e scuri, pettinati all’indietro con il gel e raccolti da due forcine sulla nuca. Il volto parlava di vita vissuta. Si raccontarono brevemente chi erano. Quando disse che non era di Venezia Z. la guardò seria, e le disse che aveva un volto giorgionesco. Le chiese di lasciare il suo indirizzo di posta elettronica, mentre acquistava il piccolo catalogo delle opere esposte. Prima di uscire, tornò a guardare una foto a colori nella seconda stanza. Un notturno, Gerusalemme dopo lo shabbat. Una veduta di un agglomerato di case e gradini nella notte, con punti luce gialli e azzurri provenienti dalle abitazioni. Poche presenze umane, che si notavano solo facendo attenzione. Si era chiesta se Gerusalemme fosse tutta così, il sabato sera. Z. la raggiunse di nuovo e le chiese se veniva spesso a Venezia. Rispose che ne avrebbe avuta occasione ogni settimana fino al mese di maggio, poichè aveva iniziato un percorso di studi in città. Le strinse la mano per salutarla sorridendole, e le disse: "Buon anno allora, si può dire, siamo ancora in gennaio no?". Uscì e si diresse a lezione.

Pensò che quello era lo stesso tratto di strada che aveva fatto con lui quella sera per andare verso la stazione dei treni. 
L'aveva guardata giocherellando con la bottiglia vuota della birra, la testa leggermente piegata sulla spalla sinistra e un sorriso bambino. "Non andare a casa stasera, sali sul treno con me, vieni a cena a casa mia. Posso offrirti un'ottima mozzarella con pomodori!". Mancavano pochi minuti alla partenza del suo treno. Lui aveva capito al volo che avrebbe accettato l'invito. Una corsa ed erano già su. Erano entrati in uno scompartimento vuoto. Lei aveva fatto qualche passo e aveva scelto un posto più o meno al centro della carrozza. Lui era rimasto un po' indietro, aveva aspettato che lei si fosse seduta e poi aveva iniziato ad avvicinarsi facendo capriole da un sedile all'altro. Si muoveva come un felino, le sue pupille erano pantere, scure come una notte in periferia, il suo sorriso sembrava eterno. Poi si era seduto accanto a lei, ed erano rimasti un po' in silenzio a guardare fuori dal finestrino del treno in corsa. Ad un certo punto le aveva preso la mano che teneva appoggiata sul sedile. Aveva accarezzato le sue dita senza parlare. Lei era rimasta immobile. Non le aveva dato fastidio l'iniziativa, ma non riusciva a decifrare le sue sensazioni al contatto con la sua pelle. In ogni caso, niente che le trafiggesse la carne. Piano, lui tolse la sua mano da quella di lei. Appena scesi dal treno lei aveva voluto fermarsi al bar della stazione, per prendere una bottiglietta d'acqua e fumare una sigaretta. Aveva sentito il bisogno di rallentare. Si erano seduti ad un tavolo all'esterno. Fumava e guardava il muro. Ascoltava la canzone Clandestino di Manu Chao, provenire dalla radio del bar. Nei pomeriggi lunghi che avevano passato assieme al lavoro, lui le aveva insegnato le parole. Era rimasta affascinata dal fatto che parlava quattro lingue, e molto incuriosita da quell'insieme di intelligenza, che lei riteneva superiore, percorso di studi e un aspetto da vagabondo. Quello che aveva insinuato turbamento in lei erano stati gli occhi: immobili, scuri, impenetrabili, portatori di pericolo. Di colpo aveva spento la sigaretta sul posacenere, e gli aveva detto che aveva cambiato idea, che si scusava ma che non voleva proseguire, che sarebbe tornata a casa. Si era sentita stringere allo stomaco, aveva avuto paura. Lui si alzò e le disse che era come se lo avesse sempre saputo. Disse che l'avrebbe accompagnata a casa in macchina, e la pregò di seguirlo al parcheggio. Durante il viaggio lei non era riuscita a parlare, a fargli le sue scuse per come si stava comportando. I suoi pensieri si erano fissati sulla pelle di lui, sul senso di estraneità che aveva provato al tocco, sullo scarto abissale che aveva registrato tra un desiderio tutto mentale e l'approccio fisico. Era successa la stessa cosa quando aveva appoggiato le sue labbra su quelle di lui, un pomeriggio su una panchina. Più che un bacio era stata una carezza stupita. I corpi erano rimasti fermi, paralleli, le mani non si erano mosse a cercare un contatto. Lo ricordava come un attimo di silenzio umido, con lui che l'aveva ringraziata per avergli fatto assaggiare le sue labbra. Era bravo con le parole.
Avevano fatto tutto il viaggio con i finestrini abbassati per il caldo di quella sera. Lui aveva parlato in arabo tutto il tempo al telefono con un amico. Il suono delle gutturali continuava a provocare in lei un senso di piacere, anche se il tono in alcuni momenti le era sembrato duro, quasi scocciato. Arrivati a destinazione gli aveva indicato una stradina secondaria lontana dal centro dove fermarsi. Lui avrebbe voluto bere ancora una birra, ma lei era scesa in fretta dalla macchina, senza avvicinarsi a lui per un saluto. Il tempo era finito. Non l'avrebbe visto più.

Arrivò al civico 1189. Suonò il campanello e rimase in attesa. Sapeva che aprire il portone verde e pesante, percorrere l’atrio al buio, uscire nel cortile interno e rientrare in aula dall’altra parte, faceva si che scattasse in lei l’oblio. Come varcare una soglia oltre la quale rinascere.
Finita la lezione, uscì e si diresse al parcheggio per prendere l'auto, tallonata da un compagno di corso piuttosto invadente. Sentì il bisogno di accendersi una sigaretta, la tristezza iniziava a farsi avanti. Sapeva che i suoi erano pensieri rumorosi, tanto rumorosi che le era capitato una volta in treno di vedere un ragazzino seduto tre posti più avanti di lei voltarsi improvvisamente e guardarla senza dirle nulla, senza che lei avesse detto nulla. La sera a cena bevve un po’ troppo, si addormentò velocemente ma riaprì gli occhi verso le quattro e trenta. Ancora insonnia. 

 


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