dieci 'cose' a cui sono contraria

1. Sono contraria a chi trovandosi a cena in compagnia mangia e se ne va perchè dice 'sono stanco'.
2. Sono contraria a sorridere quando non serve.
3. Sono contraria al gossip.
4. Sono contraria a baciarsi ogni volta che ci si incontra tra amici.
5. Sono contraria ad accontentarmi quando mi si dice 'ho letto quel libro: bellissimo!'.
6. Sono contraria alle voci stridule e sopra le righe.
7. Sono contraria a generalizzare.
8. Sono contraria ad accettare le giustificazioni di chi arriva in ritardo sistematicamente.
9. Sono contraria che mi si inviino sms per dirmi 'ti aspettiamo' quando avevo già detto che non avrei partecipato.
10. Sono contraria ad affezionarmi (ai cani).




disciplina

impeto di rabbia per quella risata gratuita, immancabile, a due. ti alzi e te ne vai. non saluti e te ne vai. te ne vai, ma dove te ne vai? te ne vai via, via da quel posto per andare in un altro posto. nell'altro posto trovi uno spazio colorato, abitato dalla quiete animale del cane sdraiato. era solo un pensiero. ma te ne vai da quel posto ad un altro posto. lo fai. con il pensiero te ne vai. il tuo corpo rimane. rimane a poca distanza perchè senti ancora le voci. le senti e senti che ridono ancora. in due ridono ancora. ancora senti la telecronaca dei giochi. pensi di chiedere asilo per una sera. non risponde nessuno. il cane si sveglia. tu non sei molto sveglia. ripensi a chi con te parlava un po' ma giustamente è lontano. rimani lì, così. prevedi un'aria gelida al passare della notte. non trovi nella tua mente chi se ne curi, chi se ne possa curare. vorresti pallottole di zucchero, vermi di cioccolata e siringhe di miele. vorresti qualcosa e ripensi a qualcosa. sarai immobile, più di prima. dovresti pensare a qualcosa da inviare a m. che sta preparando il book per m. ma non ti viene niente. non hai niente da dire, o da dare, forse. e questo impeto non servirà a nessuno, nemmeno al pensiero che spinge fuori bolle di vuoto. vorresti essere più cattiva. più di così. vorresti separare il corpo dalla mente. azzerare l'importanza di ogni esigenza. lì dove sei, tutti i rumori ti disturbano. il tuo corpo si modifica temporaneamente per un respiro profondo, poi torna quello di prima. hai letto da qualche parte che non serve attuare alcun metodo di privazione, e che non si ottiene nulla sacrificando e applicando disciplina. puoi arrivare a nutrirti diversamente, ad aprezzare litri di liquido al posto del cibo solido, ad annullare il piacere di ingerire cibo come e quando lo desideri, a governare il corpo con esercizi e abitudini posturali ma non funzionerà. non funzionerà se tutto questo non sarà dedicato. non funzionerà in mancanza del dono. non funzionerà per rabbia, nè per decisione presa con la testa. non funzionerà per il piacere della disciplina. funzionerà solo se ogni gesto, ogni minuto impiegato, ogni scelta tra quelle possibili saranno dedicate al cielo. diciamo così, al cielo. come dire che occorre puntare in alto, per riuscire. pensavi bastasse qualche intuizione qua e là, qualche commossa suggestione, qualche timido sentire. macchè. non basta. non si può barare. o guardi in su, o guardi in giù. e tu, se guardi in su, perdi l'equilibrio.

distanza

E il pensiero suda.
E non ti perdoni, di non perdonare.

ciao

sui giornali ti hanno chiamato 'manager dei condomini'. quanto mi piacerebbe vedere la tua faccia, se lo potessi leggere! ciao caro Livio, mi mancherai, ci mancherai. riposa in pace. e grazie.

appunti 3

"all'accademia? e poi cosa farai nella vita, la pittrice? e tu pensi di mangiare facendo la pittrice?" questa fu la colonna sonora dei miei giorni di preparazione all'esame di ammissione. da un lato i miei genitori mi buttavano giù, dall'altro vollero darmi la possibilità di prendere qualche lezione di disegno tecnico da un'insegnante che aveva avuto mio fratello al liceo scientifico. ma fu una farsa. lei non aveva alcuna voglia di insegnarmi quello che avrei voluto imparare. andai a casa sua tre volte e poi mi feci dare una bibliografia minima, pensando fosse possibile prepararmi da sola, cosa che capii presto non sarebbe mai accaduta. fingendo che il problema non ci fosse presi in mano la storia sociale dell'arte di Hauser e mi misi a studiare durante i mesi estivi. avrei sostenuto l'esame lo stesso, in settembre. avrei avuto il tempo, in caso di fallimento, di iscrivermi all'anno integrativo e iniziare a pensare all'università. non conoscevo nessuno con cui poter avere uno scambio. studiavo, disegnavo, e per la prova di architettura non feci più nulla. era chiaro che l'esame non l'avrei passato, e ancora oggi non capisco cosa mi avesse fatto sperare il contrario.
la prova scritta di storia dell'arte poteva toccare qualsiasi argomento, dalle origini al novecento. non male come programma, considerando che nei quattro anni di scuola superiore la storia dell'arte non era stata certo una materia approfondita. tra i tre titoli proposti scelsi di scrivere sullo stile gotico. delle prove orali non ricordo nulla. mi pare di aver risposto a domande sulla letteratura italiana, sulla geografia astronomica, sulla storia dell'arte e su qualcos'altro ancora. la prova di copia dal vero portò con sé una piccola emozione, ma a scoppio ritardato. ero nella mia postazione, con il mio foglio fissato ad una tavola, intenta a disegnare. entrò in aula un signore altissimo, magro, leggermente curvato in avanti, barba lunga, capelli raccolti in una coda, occhiali neri con montatura grossa. quando arrivò da me guardò il mio disegno e con un gessetto fece qualche segno sul bordo del foglio, come se stesse facendo un discorso tra sé. poi se ne andò dall'aula. chiesi chi fosse quello che era uscito e aveva scarabocchiato il mio foglio. era Emilio Vedova. per la prima volta associai la sua faccia ai suoi quadri. la prova di architettura furono tre giorni di pena. si doveva progettare un padiglione per la Biennale Internazionale d'Arte di Venezia. non si poteva uscire dall'aula prima di aver indicato nel foglio timbrato tutte le fasi del progetto che si intendeva sviluppare nei tre giorni a disposizione. finito il calvario di quei tre giorni in cui tentai l'impossibile era il momento della prova libera. l'ultima prova. un bambino alla scuola elementare avrebbe fatto meglio. ricordo che usai addirittura un colore mai usato, nè prima nè poi. il viola. non sono mai riuscita a lavorare con il viola.
tornai a venezia quando uscirono i risultati per vedere con i miei occhi sul tabellone la mia sconfitta. le prove scritte e orali di cultura generale erano più che sufficienti. le prove pratiche, tutte insufficienti. non ero passata. tornai alla stazione per prendere il treno, ma non salii sul primo che partiva, aspettai quello successivo. rimasi circa un'ora seduta sugli scalini della stazione a guardare la gente che andava avanti e indietro. poi tornai a casa. il giorno dopo, febbre a 38.
 
...
 
 


appunti 2

(un piccolo passo indietro)
a 13 anni, dopo la scuola media, avevo espresso la volontà di iscrivermi al liceo artistico, ma i miei genitori si erano spaventati all'idea. "sei piccola! dovresti andare a Treviso in corriera o in treno! stare fuori da sola! c'è la droga! non se ne parla!". mi dissero chiaramente che potevo scegliere tra le tante scuole che c'erano nella mia cittadina, purchè non fosse un liceo "perché poi non hai niente in mano, guarda tuo fratello...". non rimaneva che iscrivermi all'istituto magistrale, che allora era una scuola privata cattolica. suore. quattro anni di prigionia. durante quel periodo avevo messo un po' da parte la mia passione per la pittura e il disegno. praticavo molto sport. avevo buonissimi voti ma coltivavo gelosamente il mio 8 in condotta, che dalle suore equivaleva ad uno scandalo.  il quarto anno mi tornò fuori quella cosa che avevo creduto di aver seppellito, e andai in crisi. tagliai i ponti con tutte le amicizie, nessuno di loro amava l'arte. presa la maturità pensai di essere libera, e anziché iscrivermi al quinto anno integrativo, previsto per chi vuole accedere all'università, dirottai i miei passi alla scuola libera del nudo. fu l'anno più bello della mia vita. posso dirlo. ma alle mie spalle incombeva la disapprovazione familiare ed io non avrei saputo gestire questa cosa, e non avevo nessuno che avesse voglia di consigliarmi una via.  
durante quell'anno alla scuola libera del nudo avevo saputo che con i dovuti permessi si poteva entrare nell'aula di pittura dell'accademia di venezia. la cosa mi incuriosiva parecchio, volevo varcare quella soglia, volevo entrare in aula durante l'ora di lezione. non senza i soliti timori decisi di procurarmi il permesso e di andare in visita. ricordo ancora com'ero vestita quel giorno. mi accorsi di com'ero vestita guardando com'erano vestiti gli altri. mi accorsi di com'erano i miei capelli guardando i capelli degli altri. io lì dentro ero un alieno. ho attraversato il cortile interno per raggiungere l'aula con passi regolari, uno dopo l'altro, come normalmente si fa per camminare. ma nella mia testa ero un blocco di cemento che non si muoveva. le gambe erano pesantissime, il collo rigido, gli occhi sbirciavano intorno ma la testa rimaneva piegata verso il basso. quel cortile non finiva più. la tentazione di fare marcia indietro era sempre più forte, ma la mia timidezza era così devastante che mi impediva anche la fuga. mi ritrovai dopo un tempo che mi sembrò eterno di fronte alla porta dell'aula di pittura. bussai alla porta e aspettai. non venne nessuno ad aprire. pensai per un attimo di aver sbagliato porta, ma dai finestroni vedevo all'interno persone al lavoro. respirai a fondo e abbassai la maniglia per entrare. quell'odore buono di smalti e vernici, olio di lino, tempera, trementina e colla era subito lì ad accogliermi. finsi di non essere commossa e continuai ad avanzare camminando dove era possibile non inciampare su fogli arrotolati, scatole, cavalletti, gessi, blocchi di marmo, barattoli e tavoli. i soffitti erano altissimi. l'aula era disposta su piani sfalsati. la luce era bianca ed entrava dai finestroni perimetrali. era un po' nascosto in fondo Carmelo Zotti, era lui che teneva la cattedra di pittura quell'anno. andai a stringere la mano a quell'omone enorme che sorrideva con gli occhi e scambiai con lui alcune frasi di convenienza. mi disse che potevo fare quello che volevo, che mi accomodassi pure. nell'immediato non seppi fare altro che togliermi il cappotto e sedermi sopra ad un tavolo. dondolavo le gambe e mi guardavo attorno. sentivo la presenza ingombrante delle mie scarpe di vernice nera tipo inglese, dei miei pantaloni a sigaretta a quadri scozzesi rossi e blu, del mio maglioncino firmato modello maschile blu, dei miei capelli biondi lunghi e lisci con una frangetta ben pettinata. ero molto magra ma avrei voluto esserlo fino a sparire. rimasi lì per un po' a guardare una ragazza che dipingeva su un foglio grande fissato con puntine da disegno su una tavola inclinata. capelli rasta raccolti in modo sommario, orecchino sul naso e tutona grigia senza una forma definita. ero ipnotizzata a guardare il suo polso. lo usava per dipingere in un modo che non avevo mai considerato. lo faceva ruotare sul foglio tenendo in mano un pennello di media grossezza. la punta del pennello tracciava dei filamenti pastosi che a tratti si richiudevano in forme concentriche irregolari. questi che erano simili a dei contorni avevano una tonalità biancastra, poco più scura del foglio stesso, ma visibile. la ragazza segnava il foglio quasi danzando con il corpo. la vedevo parlare senza che muovesse la bocca. era tutta lì, per la pittura, si consegnava completamente, non solo con la testa. dopo un po' Zotti mi invitò a fare un giro per l'aula, così con fatica mi schiodai da quel tavolo e cominciai ad intrufolarmi tra i cavalletti. ero lì per guardare cosa facevano gli allievi del corso di pittura all'accademia di belle arti di venezia. per quanto il mio corpo tentasse ancora di ritrarsi da quella situazione, il cuore andava a mille, la pelle che segnava il confine del mio viso era bollente e io desideravo. desideravo esserci. desideravo che i miei giorni fossero fatti di momenti come quello, desideravo stupirmi nel vedere cosa facevano gli altri corpi, cosa producevano le altre mani, come si muovevano. desideravo quell'odore per tutta la vita. desideravo desiderare.
da quel giorno cominciai a fantasticare sulla possibilità di entrare all'accademia. non riuscivo a pensarmi in altro modo. tutti i miei sensi erano pronti per vivere la pittura. ma il mio percorso scolastico non era adatto all'iscrizione diretta. avrei dovuto sostenere un esame di ammissione, un esame che sapevo durava una decina di giorni, con prove scritte e orali su tutte le materie, e prove pratiche di disegno dal vero, architettura e prova libera.  
 
fine terza parte

appunti 1

In quell'anno, a cavallo tra il 1984 e il 1985, Basaglia insegnava in compresenza con Luciano Zarotti. Zarotti dava consigli tecnici a chi li chiedeva, era sempre presente e spesso gironzolava per le ampie stanze al primo piano della scuola fischiettando qualche aria di Mozart. Io non chiedevo mai niente, perchè ovviamente non ne avevo il coraggio, ma ascoltavo tutto. Arrivavo lì e lavoravo tutto il tempo arrotolando fogli disegnati uno sull'altro. 
La modella che preferivo era piuttosto formosa, non proprio giovanissima, teneva i suoi capelli neri raccolti in uno chignon morbido e aveva la pelle molto chiara. Arrivava in pedana al centro dell'aula riscaldata in accappatoio rosso, camminando lentamente, con ai piedi ciabattine rosa. Si toglieva l'accappatoio e le ciabatte con naturalezza e si metteva in postazione. La pedana che la ospitava era un cubo di legno piuttosto grande, alto circa un metro, con sopra un materasso o comunque una superficie imbottita e dei cuscini. La sua posizione era per settimane la stessa, per permettere a chi dipingeva di ritrovare anche a distanza di una settimana la stessa inquadratura. Ognuno poteva scegliere la posizione che voleva, e cambiarla anche più volte in un giorno, per ritrarla da davanti, di lato o da dietro. Spesso quando Basaglia arrivava in aula si sedeva con lei in pedana, per salutarla e scherzare un po'. Quando non c'era lei la sostituta era una donna magra, con i capelli lisci di colore biondo scuro lunghi fino alle spalle, la carnagione ambrata, le labbra grosse con rossetto. I disegni che realizzavo di lei non mi soddisfacevano mai. La mia mano non trovava gusto se non c'era carne in abbondanza. I miei compagni di corso erano persone molto diverse tra loro, per età e formazione. Inoltre la scuola era aperta anche ad artisti da fuori che spesso venivano a trovare Basaglia e il suo cane, e stavano lì a dipingere. Insomma, c'era sempre un via vai di gente. Nella pausa pranzo uscivo a fare due passi e a volte, ma non sempre, mangiavo un panino all'unico bar che c'era nei dintorni della scuola, mentre i fedelissimi di Basaglia, rimanevano con lui in aula e mangiavano qualcosa assieme. Successe solo una volta, verso la metà dell'anno accademico, che mi convinsero a fermarmi con loro a pranzo. Accettai con la gola secca. Ricordo che ero seduta alla sinistra di Basaglia, il quale mi guardò e mi chiese con quale affettato volevo che mi facesse il panino. Devo essere arrossita fino ai piedi per rispondere. Con le sue mani prese il pane (non rese grazie) e mi fece il panino. Me lo diede sempre con il suo sguardo serio, e mi disse 'magna, che te si magra!'. Poi ci guardò tutti e disse ridendo che sembravamo all'ultima cena. Dopo quella volta cominciai a sciogliermi un po'. Feci un po' di amicizia con Sabrina, che aveva più o meno la mia età ed era iscritta all'accademia, al corso di decorazione. Parlavo con Maria, un'anziana pittrice che abitava dalle mie parti, amica di Basaglia. Lei mi diceva che avevo 'manina'. Ma la diagnosi me la fece Zarotti, un giorno che si avvicinò al mio cavalletto, guardò me e il mio disegno, e mi disse: 'la timidezza, dono divino nelle colombe, in arte è peccato mortale'. Non sortì un gran cambiamento in me. 
Verso fine anno (estate) le giornate si erano allungate, non c'era più l'incubo nebbia da tenere sotto controllo per il ritorno in vaporetto. In quelle settimane di tempo buono incontravo spesso Basaglia in vaporetto all'andata, al mattino. Era diventato costume scendere a sacca fisola e dirigersi automaticamente al bar, io e lui, ordinare un rosso, berlo in silenzio e poi procedere verso la scuola. Fortunatamente non ho mantenuto quell'abitudine, una volta finito il corso. Conservo ancora da qualche parte le foto del pomeriggio della festa di chiusura dell'anno, in estate. Avevamo realizzato un murales che dovrebbe esserci ancora su una parete esterna della scuola e rappresenta un cumulo coloratissimo di immondizie, con il particolare di un topo che corre in alto a sinistra. Nelle foto si vede la lunghissima tavolata allestita nei giardini antistanti la scuola. Ricordo che c'era un'atmosfera da sagra di paese, con la presenza chiacchieratissima di un presunto gigolò veneziano che faceva bella mostra di sè passeggiando sull'erba, uomo senza dubbio attraente, un po' tenebroso, con capello un po' lungo, barba brizzolata e sigaro profumato. Durante quella festa, sapevo già che non avrei proseguito con gli altri due anni. Mi era stato concesso un vero lusso. Quella scuola non dava alcun diploma, e io dovevo iniziare a pensare a qualcosa di concreto. Continuai però a disegnare e a dipingere per altri vent'anni. 

fine seconda parte
 

appunti

Guardando ieri una splendida foto-ritratto - scattata da Francesco Barasciutti - di Vittorio Basaglia, unico mio Maestro, da cui ho preso lezioni di nudo, che ha dato l'impronta estetica a tutto il mio immaginario in pittura, pensavo che allora ero giovane e non capivo niente. avevo paura della mia ombra, mi nascondevo, sentivo solo una roba dentro quando disegnavo o usavo il colore, e mi sembrava di rubare il tempo alle cose 'utili' della vita. ho distrutto e buttato via tutti i disegni di quell'anno favoloso, fogli grandi e piccoli, prove, percorsi della mia mano incerta, disperata, innamorata, su carta odorosa. 
avevo 18 anni. i miei giorni 'vivi' erano tre, nella seconda metà della settimana. prendevo il treno per venezia al mattino, arrivavo alla stazione e mi dirigevo a prendere il vaporetto per sacca fisola, detta l'isola 'dee scoasse'. scendevo e percorrevo a piedi poca strada per arrivare allo stabile che ospitava 'la scuola libera del nudo', un distaccamento dell'accademia di belle arti, e lì rimanevo con altre 11 o  forse 12 persone fino alle sei di sera circa. poi tornavo in vaporetto, una ventina di minuti, poi in treno, circa un'ora, e poi a casa, altri venti minuti a piedi. il treno delle sette e mezza di sera era ancora di quelli con i sedili in legno. bellissimo. ricordo che la strada di ritorno a piedi dalla stazione a casa la facevo come sospesa nel vuoto. conservavo tutto l'odore della pittura nelle narici, e respirare di nuovo quell'aria diversa, di casa, senza pigmento, mi intristiva sempre. 
per accedere a quel corso di un anno avevo partecipato ad un esame di ammissione. mi ero iscritta senza alcuna convinzione di passarlo, anche se mi pareva l'unica cosa da fare, l'unica cosa che io avrei potuto fare. avevo parlato con una mia ex compagna di scuola che avevo incontrato per caso del fatto che ci piaceva disegnare, e che sarebbe stato interessante essere seguite da qualcuno. così saltò fuori l'idea di tentare ad entrare in quella scuola. il giorno dell'esame mio non era lo stesso fissato per l'esame della mia amica. così partii da sola. ero arrivata a venezia un mattino presto. alle 8,30 avevo già preso posto su uno dei cavalletti a disposizione ed ero lì ferma con le mie matite nell'astuccio e il mio foglio timbrato grande, molto grande, di una misura che non avevo mai usato, issato su un supporto a cavalletto. mi guardavo attorno e gli altri mi sembravano tutti sicuri del fatto loro, grandi, molto più grandi e importanti di me. non parlavo con nessuno ma ci ero abituata. in quel periodo passavo molte ore al giorno in silenzio totale, come se le corde vocali non mi funzionassero. ricordo che indossavo un giubbino rosso. e ricordo che ad un certo punto entrò nell'aula un tipo che una volta scelta la sua postazione si tolse il giubbino e lo lanciò per terra, con fare alternativo. pensai che forse era già un artista, lui.
ci misero a copiare un busto in gesso, un torso di dimensioni naturali, testa e braccia mozzate, messo al centro della stanza. noi con i cavalletti eravamo disposti tutto attorno. ognuno poteva scegliere la posizione che preferiva. io mi ero limitata ad occupare il primo posto libero appena entrata. da lì lo vedevo di fronte voltato a tre quarti. avevamo a disposizione quattro ore. cominciai a guardare quel gesso bianco. le forme erano molto belle. io avevo portato con me solo due matite, la gomma e uno sfumino, roba antiquata. superata la paura di toccare il foglio con la punta della matita mi misi al lavoro. verso mezzogiorno entrò lui. i disegni erano quasi finiti. io non sapevo chi fosse. fece un giro passando in rassegna le postazioni di ognuno scambiando qualche battuta con gli assistenti. arrivò da me e si mise a sedere al mio posto sullo sgabello chiedendomi il permesso di farlo. mi spostai di lato al cavalletto. io tacevo. lui taceva. guardava il mio disegno, guardava il modello di gesso. dentro di me pensavo che avevo fatto un disegno troppo morbido. non c'era il senso della materia. avevo reso carne, il gesso. dopo pochi secondi quell'uomo magro, capelli e barba rossicci e occhialetti rotondi si girò verso di me con uno sguardo severo, annuì con la testa ma non disse niente. poi se ne andò. dopo due settimane circa mi arrivò una lettera a casa dell'accademia di belle arti di venezia dove c'era scritto che mi avevano preso per quell'anno. la mia amica fu scartata.
a chi mi conosceva, con l'andare del tempo, avevo spiegato ripetutamente di che scuola si trattasse, ma nessuno sembrava capire. per i miei fratelli io ero quella strana, che andava a disegnare le modelle nude. io so che in quei tre giorni della settimana stavo bene. me ne andavo altrove a disegnare. ero molto triste, si, ma più disegnavo e più quella tristezza prendeva voce e si trasformava in qualcosa che mi faceva compagnia. triste, non incazzata, solo profondamente triste.

fine prima parte



annunziata



essere  lui,
pieno d’amore.

lui che guarda il buio e la luce
e scaltro ne domina ogni grado,
e li possiede.

lui che misura il tempo
del grande assente tra le dita,
lui che mai sguardo fu più tenero
al mio.

lui che diventa lei,
sorriso da un futuro anteriore
che lieve, avanza
e morbido, s’acquieta.