interrogazione

è lo spazio bianco
che ogni volta mi fa sussultare
come ora
di paura
e prego un dio
che non ho mai incontrato
di rimanere viva
fino all'ultima ora

hai saputo dirmi che è tutto

quello che non sai
è che lì ancora, io mi perdo
e perdo





in treno


Lui voleva guardarla da dietro.
L’aveva vista arrivare da in fondo, gonnellina corta in chiffon nero e calze velatissime nere.
Stuzzicadente in bocca, si trovava tra la gente in attesa tra le due porte, e si era spostato lentamente in modo da arrivarle alle spalle. Lei di fronte ad una delle due uscite, guardava fuori, lui dietro, guardava indisturbato il suo fondo schiena e quel paio di gambe sinuose fuoriuscire da una minigonna troppo corta e troppo leggera, ammiccando ai compagni di viaggio che gli sorridevano intuendone i pensieri. Lei, di almeno vent’anni più giovane, si era accorta subito di quegli sguardi insolenti, e tradiva un leggero imbarazzo. Il treno continuava a rallentare e le persone in attesa iniziavano a fare pronostici sul lato da cui sarebbero scesi. Nessuno poteva muoversi più, lo spazio era stato occupato del tutto, altre persone rimanevano in coda nei corridoi e tra i passaggi dei vagoni che confluivano verso le uscite. Finalmente il treno si fermò. La ragazza abbozzò un sorriso soddisfatto nel capire qualche secondo prima che lei sarebbe stata l’ultima a scendere, perché le porte si sarebbero aperte dalla parte opposta alla sua, e si voltò.
Lui si tolse lo stuzzicadenti dalla bocca, girò sui tacchi e scese prima di lei, sconfitto.

e poi

to be continued

viandante

il creativo


"Saprai giocare con me ai pigmei del Burundi
al salto del rosso, al giro del viola
questa giostra di carta sarà tua
e potrai volare sull'ottagono di vetro
perchè tu sai che da qui
è splendida la vista sulla città!".
Guardo lei, gentile e profumata
"il genio del rifiuto!"
dirò così,
e sarà pasta al pomodoro.


carlo e ada


carlo e giorni violenti
sulla strada di casa
la pioggia non smette
e picchia il portone
strada bagnata
cartoni inzuppati
corde ormai mute
tra lamiere insanguinate
ada si stringe e ascolta le storie
mostra i capelli di tetra figura
spaccio di note
piccoli furti
seduti per ore sul muro di cinta
sono i violini
i padroni del cielo
qui a milano
alle 5 e trenta del mattino

di carlo e del suo violino


Milano. Cinque e trenta del mattino. All’angolo di via Bramante, in direzione della fermata del tram per il cimitero monumentale, viene rinvenuto il cadavere di un giovane di età apparente tra i 25 e i 30 anni. La strada è bagnata, ha piovuto tutta la notte, e il corpo appare riverso sul marciapiede disteso sul fianco destro, quasi completamente coperto da pezzi di cartone inzuppati e sporchi e con il volto rivolto verso il muro.
Mi reco sul posto per i rilievi del caso e a stento trattengo la mia rabbia nel procedere all’identificazione. Si tratta di Carlo, il fratello minore di Ada, mia compagna di studi all’ultimo anno di liceo. Overdose da eroina. Alzo la testa, e il mio sguardo corre lungo il muro di cinta del centro sociale che si trova nelle immediate vicinanze. Provo ad immaginare dove può aver trascorso le sue ultime ore, in compagnia di chi, ma alla necessità di indagare sui fatti si sovrappongono immagini di lui ragazzino, ed è un mesto ripensare al suo bellissimo viso, e alle sue mani bianche e affusolate.
Lo incontravo sempre alla fermata del tram. Io passavo in bicicletta poco prima delle otto, e lui salutava beffardo in compagnia di altri ragazzi con il suo violino sotto il braccio, il sorriso sornione e l’aria di chi sa di valere molto più degli altri come musicista. Era tenace nello studio, appassionato e fiero, ed erano in molti a riconoscere il suo precoce talento. Aveva un rito tutto suo prima di iniziare un concerto, raccontava storie di violini che prendevano vita in un mondo surreale, e lui gli attribuiva un cuore, ma soprattutto un’anima. Era un artista. A raccontarmi di lui Ada si stringeva sulle spalle con il pudore di chi sa distinguere la verità da un elogio.  

Fu durante una lezione appena iniziata nell’aula di latino che arrivò la notizia del tragico incidente. Ada si precipitò all’ospedale, e da quel giorno la sorte cominciò a mostrare l’altra faccia. Carlo era finito tra le lamiere del tram scontratosi in città con un autobus, e l’uso del suo braccio destro fu irrimediabilmente compromesso, così come la sua carriera di musicista.
Finito il liceo persi di vista tutti e due, ma ritrovai Ada a distanza di anni una sera in pizzeria, visibilmente cambiata nell’aspetto e nei modi. Si tolse il berretto di lana mostrandomi le poche ciocche di capelli che ancora le erano rimaste, vergognandosi con me per il suo aspetto così malato e tetro. Iniziammo a parlare, e mi raccontò della sua disperazione per quel fratello che non conosceva più.
Dopo l’incidente Carlo aveva dovuto passare molto tempo tra riabilitazioni e cure mediche per il parziale recupero dell’arto, e ad ogni intervento perdeva sempre più fiducia nelle proprie possibilità, dovendo accettare ben presto di non poter mai più suonare il suo violino.
Lasciò gli studi e si cercò un lavoro come barista in periferia, ma durò poco, e cominciò a girovagare vivendo alla giornata, incurante di costruirsi un futuro che oramai non lo interessava più. Vendette tutto quello che poteva fruttargli un po’ di denaro, compresa l’intera collezione di dischi, e si allontanò da casa, senza dare troppe spiegazioni.
Dopo qualche anno di silenzio si presentò in famiglia dicendo che era appena uscito dal carcere, e che non aveva un posto dove andare. Non era la prima volta che vi finiva dentro, sempre per piccoli furti e spaccio di droga. Da quel giorno tornò a vivere a casa, ma non faceva che ostentare atteggiamenti intimidatori e violenti.

Guardavo Ada e pensavo che il suo era un racconto che avevo sentito troppe volte, ma non riuscivo ad accettare il fatto che si trattasse di Carlo, di quel ragazzetto che viveva in simbiosi con il suo violino, a cui di colpo era stato impedito di sognare.
Quella sera Ada mi confessò di desiderare che Carlo fosse affidato ad una struttura in grado di seguirlo, poiché la sua famiglia non ne aveva più i mezzi. Le diedi il nominativo di un responsabile di mia conoscenza in una comunità per tossicodipendenti promettendole che l’avrei aiutata se avesse deciso di provare. Poi non ne avevo saputo più nulla.
Fino a questa mattina.


armadio lucido

hanno trovato il loro rifugio
canne pesanti e buchi neri odorosi
la domenica li pulivi
ed io non capivo perchè li tenevi.
appendice di forza
muscolo ferroso
metro quadro difeso
dagli attacchi del sentimento.


cercasi creativo


Un palazzo antico in centro città ospitava al terzo piano l’ufficio del Sig. Mitis. Cercai il nome della sua agenzia di marketing fra le targhe incise sulla colonna in marmo a fianco del  portone d’ingresso, e premetti il pulsante in ottone. Rispose una voce femminile molto delicata, che mi pregava di salire le scale poiché l’ascensore era momentaneamente fuori servizio. Il segnale dell’apertura elettrica del portone si udì appena, confuso nel frastuono del traffico. Mi asciugai un po’ la fronte ed entrai. L’ingresso del palazzo era semibuio, ma offriva subito una piacevole frescura che si propagava dai marmi del pavimento, dai muri spessi finemente intonacati e dalla ringhiera in ferro battuto che si snodava sinuosa, accompagnando i gradini dello scalone. Non avevo niente con me che potesse suggerire una qualche idea di operosità, come una cartellina, un’agenda in pelle, una borsa business, o un auricolare avvinghiato all’orecchio. Niente. Tuttavia il vestito era perfetto, e il colletto della camicia  che fuoriusciva dalla giacca si mostrava candido e inamidato.
Salutai la segretaria presentandomi a lei e chiedendo del Sig. Mitis. Con la stessa cortesia con cui mi aveva invitato a salire mi pregò di attendere qualche minuto indicandomi la poltrona in pelle nera che potevo occupare.
Non riuscivo a concentrarmi sul colloquio che stavo per avere, mi limitavo a guardare la mia scarpa lucida che appariva e scompariva dal mio campo visivo per il movimento intermittente della gamba destra accavallata sulla sinistra, e sbirciavo soddisfatto il calzino perfettamente coordinato. In realtà era una situazione che negli ultimi mesi si era ripetuta sino alla nausea, e oramai nutrivo poche speranze di trovare un lavoro che potesse somigliarmi anche solo lontanamente. A quell’appuntamento ci ero arrivato per caso, leggendo un annuncio che mi aveva incuriosito per il testo che diceva così: agenzia di marketing leader nel settore valuta curricula per assunzione collaboratore in ruolo di responsabilità. Retribuzione adeguata al ruolo. Requisiti necessari: forte motivazione e creatività. 
“Signor Terisi?”.
“Si…”.
“Angelo Mitis, piacere. Prego mi segua, accomodiamoci nel mio ufficio”.
Mi precedette con passo lento ed elegante, ed entrammo in una stanza poligonale, con cinque pareti, di cui tre erano finestrate da pavimento a soffitto e offrivano una splendida vista sulla città, seminascosta dalla regolarità delle sottili lamelle di tende veneziane che lasciavano penetrare una quantità di luce appena sufficiente a guardarci negli occhi. Non si udivano rumori in quella stanza, solo qualche fruscio delle sedie sulla moquette grigia, ed un leggero ronzio della pala che muoveva l’aria ruotando al centro del soffitto. Una volta seduti uno di fronte all’altro rimanemmo in silenzio per il tempo che il Sig. Mitis impiegò a dare ancora un’occhiata al curriculum che gli avevo spedito. Si tolse gli occhiali e li posò sulla scrivania, mi guardò di sotto in su e disse:
“Io adoro i copricapo di ogni genere. Quello che indosso oggi l’ho acquistato in Africa dieci anni fa, da una tribù di pigmei del Burundi. Loro se ne servono per riti propiziatori, e i colori variano a seconda di chi li indossa. Questo era di un capo tribù. Ho barattato di tutto, ma si tratta di un pezzo fantastico. Non mi piace fare abbinamenti con il vestito. Preferisco i contrasti di colore e di stile, ben visibili, al limite dell’eccesso. Le va di bere qualcosa Signor Terisi?”.
“ Quello che prende lei va bene. Con ghiaccio. Grazie. Posso farle una domanda?”
“Prego”.
“L’ufficio è tutto qui? Voglio dire, l’agenzia di marketing è questa?”.
“L’ufficio uno se lo fa dove vuole Signor Terisi, non è necessario un luogo fisico, può bastare la propria mente…e comunque, visto che la sua curiosità mi spinge ad entrare nel vivo del nostro incontro, le dirò il motivo per cui il suo curriculum mi ha colpito. Lei ha una serie di titoli di studio e di attestati di frequenza a corsi di varo genere che uniti ad un’esperienza lavorativa nei luoghi di lavoro più disparati fa pensare ad una persona che non sa come mettere a frutto le proprie energie e conoscenze, proprio come me.”
“Mi deve scusare Signor Mitis, ma non capisco”.
“Si, io in questo momento della mia carriera ho questo problema. Ho le idee ma non so come metterle a segno. E credo che lei possa aiutarmi”.
“Ma non mi sono ancora presentato, in realtà lei non sa nulla di me”.
“Avrà notato che qui ci sono telecamere un po’ dappertutto. Mentre suonava il campanello, mentre saliva le scale, mentre sedeva in attesa che io uscissi, lei non pensava al motivo per cui era qui. Ha osservato l’androne del palazzo, ha sfiorato con il palmo della mano i muri mentre saliva le scale e guardava il marmo dei gradini, giocava con il movimento della propria gamba, si guardava attorno ed era tutt’uno con gli abiti che indossava e con gli oggetti che guardava … ho una particolare predilezione per le persone che non si consegnano mai completamente, che danno l’impressione di essere sempre con la mente altrove. Di queste solo alcune sono autentici artisti. Sono quelli che alloggiano una sensibilità superiore, fatta di intuizioni che non obbediscono ad alcuna legge, animi capaci di percepire la bellezza, la poesia, la luce … mi aiuterebbe a scrivere un romanzo, Signor Terisi?”.
“Posso chiederle cosa ha a che fare tutto questo con l’agenzia di marketing?”
“Fa parte di una strategia di promozione del marchio. Creare un personaggio che fuoriesca dagli schemi del solito titolare d’azienda oberato dal lavoro, iperattivo, calcolatore, flessibile e sempre presente. Il mio nome è la mia azienda, ed io voglio un’immagine nuova, maggiormente legata all’idea di uno spirito libero. Voglio scrivere un romanzo che possa appassionare, commuovere, indignare, un romanzo che scuota gli animi e che sia stato scritto da Mitis in persona. Voglio spiazzare la concorrenza in fatto di immagine, indicare una via nuova nel panorama della comunicazione. Sono un titolare d’azienda che ha anche un’anima. Voglio presentarmi in fiera con il mio libro oltre che con i miei prodotti, voglio che nascano dei circoli culturali all’interno delle aziende dove si discuta, si legga, ci si confronti sull’arte, sulla letteratura, sul cinema, sul teatro. I manager devono amare la bellezza. Non ci si può arenare ai costi di gestione. Sono stanco dell’immagine rassicurante, prevedibile e omologata che mi sono costruito negli anni…”.


“Signor Terisi?”
“Si …”.
“Sono Massimo Corsi, collaboratore del Signor Mitis … ci scusiamo per averla fatta aspettare così a lungo ma i colloqui si sono protratti oltre l’orario previsto e abbiamo ritardato con il suo appuntamento. Può accomodarsi da questa parte, la seguo io perché il Signor Mitis è dovuto scappare o perdeva l’aereo”.
Mi resi conto di essermi completamente estraniato dalla situazione. Avevo azionato un film nella mia testa di come avrei voluto fosse il colloquio ed ora mi ritrovavo a presentare il mio curriculum ad un brillante ed energico giovane che probabilmente mi aveva già inquadrato trovandomi quasi assopito in poltrona nella sala d’attesa. Mi strinse la mano in modo standard, con un sorriso standard, vestiva come le altre dieci o quindici persone che avevo visto passare in quell’ora di attesa, teneva dei fogli nella mano sinistra e si muoveva velocemente per trasmettere la sua energia lavorativa. Si sedette alla scrivania agitando il mio curriculum in maniera entusiasta, sfoderando un sorriso ora sguainato come fossimo vecchi amici. Alle pareti del suo ufficio c’erano dei manifesti di quadri impressionisti incorniciati con poche lire, e nemmeno la scelta dei colori per le cornici era stata felice. La poltrona su cui sedeva era di tipo presidenziale, e il piano della scrivania era in vetro bordato di pelle scura. C’era infine un’unica libreria lucida e nera  che ospitava alcuni grossi registri e fascicoli. Sull’unico spazio libero una foto dei figli su cornice d’argento. 
“Dunque Signor Terisi, mi racconti qualcosa di lei”. 
“Mah, quello che volevo dire l’ho scritto sul curriculum … è tutto lì”.
“Non ha niente da dire? Ambizioni, progetti, obiettivi, mi faccia capire perché è qui oggi! Abbiamo fatto altri colloqui con altri aspiranti collaboratori e questo è un posto che fa gola a molti, lo sa? Quando sono stato assunto io il Signor Mitis mi fece un’unica domanda, la stessa che le ho appena fatto, ed io parlai per mezz’ora. Se si vuole qualcosa dalla vita bisogna lottare per prendersela, non crede? Perché dovrei scegliere lei per questo lavoro? Conosce la nostra azienda?”.
“Mah, ho letto che vi occupate di marketing, e sono qui anche per saperne di più  …”.
Attese perplesso qualche secondo con lo sguardo ancora sui fogli che aveva in mano, sospirò e disse:
“Signor Terisi, io credo che lei abbia bisogno di capire meglio cosa vuole fare. Non si può cercar lavoro sparando nel mucchio. Non me la sento di proporle questo posto. Provi a rifletterci un po’ su, d’accordo?”.
Uscendo dall’ufficio salutai la segretaria che un’ora prima mi aveva fatto accomodare in attesa. Salendo in macchina mi dissi che avevo fatto bene a rifiutare l’offerta. Ero andato a quel colloquio perché volevo un ruolo da creativo, non mi interessava un posto da ragioniere della comunicazione. L’avevo fatto per troppo tempo il ragioniere ed era un lavoro che odiavo. Certo, il modo con cui avevo rifiutato era stato geniale, mettere l’interlocutore in condizione di cacciarti per disperazione. 
Procedevo nel traffico delle cinque del pomeriggio con addosso un leggero nervosismo mentre ripensavo al contenuto del colloquio che avevo avuto con il Signor Corsi. Alla terza sigaretta, nel tratto di strada che preludeva alla piazza del mio paese, avevo chiara in mente l’espressione che avrebbe fatto quella sera mia moglie. Vedevo due occhi increduli che mi avrebbero fissato per qualche secondo, per poi deviare sul piatto di pasta al pomodoro. Ed io avrei dovuto spiegarle che per un posto come quello non serviva fare tanti chilometri ogni giorno. Ne sarebbe valsa la pena solo nel caso in cui mi fosse stato proposto il lavoro per cui avevo risposto all’annuncio. Ma non era andata così. Era stata solo l’ennesima perdita di tempo. Un’altra delusione. L’avrei informata del fatto che la mia vita doveva iniziare a prendere la direzione che volevo io, e che quindi dovevo smettere di accettare qualsiasi tipo di impiego.
Ma le ultime parole furono le sue:
 “Anche la mia vita deve iniziare a prendere la direzione che voglio io. Domani mi trasferisco da mia madre”.   


io aspetto

io aspetto
(dicono che si può)
quella fonte energetica
di fantastiche proporzioni
che spinga il mio razzo
lontano dalla gravità terrestre
tuttavia
non possiedo la mappa
per navigare negli spazi celesti.

galeotto fu
quel timido assaggio

Venezia

mi è bastato parlarti
per sentire l'oriente



GIOVANNI TESTORI

RESTA IN DISPARTE

Resta in disparte
è giusto
La tua voce non ha qui senso
e peso.
Giochi una carta
che non sarà riconosciuta,
chiami un libro l’amore
l’altro l’intitoli
per sempre.
Non salvato da alcuno
finirai solo
a credere che la parola
non sia un gioco
ma un’ombra atroce
dell’incarnazione
un povero resto

(da Per sempre, Feltrinelli, 1970)

piazza pulita

il vuoto non è mai vuoto abbastanza
ci deve sempre essere qualcuno o qualcosa che si infila
oggi farei piazza pulita
alzi la mano chi non ha mai fatto pensieri di distruzione
che me ne faccio dei tuoi discorsi sulla morte
che me ne faccio di un tubo rotto
che me ne faccio di pollo arrosto e patate fritte
che me ne faccio del fiore più bello

è tutto così provvisorio
che vorrei renderlo definitivo




dalla tua parte


lacrime migranti
mimano silenziose
mutamenti minimi.
riparo scolpito nel buio della carne
che avvolge e preme.
gioco di scacchi con altro di me


M.T.

pazzo


il medico
Scassa, spacca, sfascia
cancella ogni cosa
fatti generare dalla terra nera
dal sasso bruciato
dalla polvere e dal petrolio
dalle mani incavate
dalla fame e dal sangue  
dal sangue bevuto
dal sangue
dal sangue
dall’anima esangue
scava al centro
non di lato
la tua tregua è finita nel vuoto di memoria
ti spingeranno se avrai fortuna
loro a piedi e tu seduto
e non potrai riprendere fiato
né ricucire quell’orlo strappato
vuoto di memoria
pausa
vuoto di memoria
non puoi riprendere da dove hai lasciato
pazzo
sei pazzo
e nessuno ti vuole

(dedicato al dolore indicibile di Francesco Mastrogiovanni e a chi come lui ha subìto)