dietro le quinte 3 - divagazione - il gigante e le patatine


Tempo fa ho girato un video. Era una domenica mattina, una domenica d'estate. Poco prima delle otto ero in giro con il mio cane, quando ancora il mio cane riusciva a fare strada. La domenica mattina, poco prima delle otto, non c’è movimento in piazza. Poco a poco il silenzio se ne va e tutto ricomincia, ma fino ad allora sembra davvero che il mondo stia dormendo. In quel video si vedono i miei piedi che un passo dopo l’altro procedono su una stradina con sassolini bianchi. Ho un po' la mania di filmare o fotografare i miei piedi. Questo non significa che io abbia tante foto dei miei piedi. Anzi, non ne ho, perchè ogni volta li inquadro e poi fotografo altro, ma prima li inquadro. Comunque nel video indosso un paio di ballerine in tela nera con roselline rosse e foglioline verdi. La punta delle scarpe è in pelle bianca, e anche la suola. Dove finisce il tessuto nero a fiorellini e inizia la pelle bianca della punta c’è una piccola asola annodata in filo nero. Nel video si sente solo il rumore dei passi, quel rumore di patatine sgranocchiate dal gigante, e qualche eco di passaggio d’auto. La stradina è una di quelle che attraversano i giardini pubblici che circondano il castello medioevale in centro, lungo il corso d’acqua. Il video riproduce i miei piedi che procedono sulla strada dritta. In prossimità di una curva però i piedi non la seguono, abbandonano la stradina di sassi, iniziano a calpestare l’erba, procedono per pochi passi e si arrestano con le punte delle scarpe addosso alla base di un tronco d’albero. L’immagine risale il tronco dell’albero per poi allargarsi progressivamente sui rami, poi sulla chioma. Fine del video.
Le scarpe non le ho più. Il video non funziona più. Io tendo a non abbandonare la strada.

dietro le quinte 3

ho chiuso la tenda, ieri. all'improvviso mi sono sentita scoperta. quella figura con giacca celeste scuro, probabilmente un pile, era immobile e sembrava guardare me. sono scesa in strada. l'uomo che io credo sia meridionale era sempre lì che fumava sulla terrazza bianca. non ho resistito e passando sotto alla sua terrazza ho alzato lo sguardo nella sua direzione. porta gli occhiali. occhiali rotondi con una montatura leggera, dorata. lui di certo mi ha vista attraversare la strada. l'ho guardato mentre passavo di lato al condominio. lui guardava sempre dritto davanti a sè. allora mi sono girata e ho guardato da quel punto in direzione della mia finestra. ho visto il triangolo di vetro, e le tende giallo scuro. se accendo la luce e fuori è buio anche lui mi vede. forse non distingue bene la mia figura quando il cielo è chiaro e io non accendo luci nello studio. ho attraversato il cimitero per accorciare la strada da casa mia all'ufficio. nel calpestare i sassolini bianchi che ricoprono le stradine tra le tombe associavo il rumore dei miei passi ad un gigante che sgranocchiasse patatine. e i morti mi guardavano dalle foto nelle lapidi. sempre mi guardano da lì, e io non vedo loro. è sempre così. sarà sempre così? ho visto le tombe allestite a festa. ci sono donne che in questi giorni scendono dalle auto nei parcheggi attorno al cimitero con scope e secchi per pulire le lastre di marmo. fanno le casalinghe per i morti. lavano bene, riordinano, tolgono le foglie secche d'intorno, pensano i colori che devono essere diversi dall'ultimo giro di fiori, per dare ancor di più la sensazione di nuovo, di pulito, di festa. il fiorista all'entrata fa soldi a palate. nuvole di crisantemi. il fiorista che anni fa tentò una rapina e fu violento, mi saluta allegramente quando passo. parla forte. mi sorride e mi chiede "tutto ben?". ieri c'erano molte donne che attendevano di acquistare fiori. voci. umori umidi.

giallo e grigio

curioso. ho ricordato (non a caso) i colori della copertina di 'Je me souviens' acquistato a Parigi lo scorso agosto. qui nella foto il libro è appoggiato sopra al tavolino di un locale battente bandiera cubana, lì a Parigi. giallo scuro e grigio scuro, proprio come le pareti della mia stanza, e delle scale di Milano, con le stesse tonalità. davvero curioso. oltre al fatto che io, non so il francese.

dietro le quinte 2

8,15. martedì mattina. non c'è nessuno sulla terrazza bianca. l'uomo che io credo sia meridionale forse ha già fumato. la porta a vetri senza tenda è chiusa e la stanza al suo interno è buia. ma no.. si apre, eccolo! anche oggi, giacca celeste scuro, probabilmente un pile. il braccio sinistro lo tiene lungo il corpo con la mano in tasca, la sigaretta la regge con la mano destra, sempre alla bocca. non lo vedo mai accendere la sigaretta, forse la accende quando ancora è all'interno della stanza. è fermo e guarda nella mia direzione. se io vedo lui, probabilmente lui vede me. ma se rimango con la schiena rilassata a scrivere, la linea dei suoi occhi è nascosta da un piccolo ramo di pino, dei due che fanno da quinta, che sporge, così io vedo la sua figura, e preferisco pensare che lui non possa vedere me. lo guardo attraverso un triangolo di vetro creato dalle due tende che scendono dritte sulla finestra, ma una delle due, quella di sinistra, la scosto un po' e la fermo all'estremità del calorifero in basso. sono tende giallo scuro con disegni stilizzati rosso scuro. su quella di sinistra coccodrilli nella parte centrale con ai lati una larga cornice a rombi per tutta la lunghezza. su quella di destra serpentelli attorcigliati in file alternate a rettili di uguali dimensioni simili al geco, mentre la cornice è una fascia con una doppia linea spezzata che si snoda in lunghezza. la tenda di destra è di un giallo appena più chiaro rispetto alla tenda di sinistra, ma sempre coprente. un acquisto fatto per caso, a Roma, in un negozio messicano di articoli per la casa ma anche capi di abbigliamento, in una zona della città in cui non saprei tornare, poiché non ricordo alcun riferimento. non si può guardare attraverso queste tende, ma quando fuori c'è il sole, la stanza all'interno è avvolta da una nuvola gialla, caldissima, attraente, giocosa, protettiva, che mi dà pace. una luce che ti porti addosso anche quando esci, e che avverti ancora prima di entrare. una luce che rimbalza alle pareti, anch'esse giallo scuro da soffitto fino a un metro da terra, dove inizia una fascia grigio scuro che arriva a pavimento. sono colori che ho voluto riprodurre dopo averli visti a Milano, mentre salivo le scale di un condominio con cortile interno, ex case di ringhiera in via bramante, dove abitava un'amica che ora si è trasferita. stava al quarto piano, senza ascensore, e ogni volta che salivo le scale guardavo queste pareti dipinte in giallo e grigio, e le piante grasse sui gradini. voci, rumori. e musica. sempre musica di tutti i generi. ad ogni piano un genere diverso, che si mescolavano nell'aria comune del cortile. mi piaceva molto andare lì.
la terrazza bianca è di nuovo vuota, l'uomo che io credo sia meridionale è rientrato, la strada è bagnata.

dietro le quinte 1

7,30. domenica mattina. l'uomo che io credo sia meridionale esce a fumare nella terrazza bianca indossando una giacca, presumo un pile, di un celeste scuro. non abbassa mai la mano che regge la sigaretta, la tiene  sempre vicina alla bocca. da qui vedo una massa piuttosto informe, il busto celeste scuro, una mano vicino ad un viso di cui non scorgo i lineamenti, e capelli scuri. sta fermo. muove solo la testa a destra e a sinistra. dietro alla porta a vetri alle sue spalle non c'è nessuna luce accesa. quella stanza non ha una tenda sulla porta. mi chiedo se anche il resto di quella casa sia tutto senza tende. una porta è sicurezza. una tenda sulla porta è privacy. questo mi hanno insegnato al corso di aggiornamento, introducendo l'argomento password. ci sono livelli di protezione diversi. forse l'uomo che io credo sia meridionale non ha paura. forse, non sente violata la sua privacy rimanendo senza tenda sulla porta. lui continua a fumare. da qui sembra una figurina incorniciata su fondo nero e cornice marroncina, perchè sta giusto dentro ad un'anta della porta a vetri che delimita la terrazza bianca. dato che non vedo i lineamenti del viso, penso ad un quadro di munch, un ovale chiaro. ma la forma del busto dell'uomo che io credo sia meridionale, di cui vedo solo fino al giro vita, scende a tronco di cono, con la base verso il basso e non può essere una figurina sinuosa dipinta da munch. mentre guardo quell'immagine statica s'intromette a sinistra del mio campo visivo il movimento di un uomo che passa sulla stradina che taglia tra il campo da calcio e il lato nord del condominio con terrazze bianche. quell'uomo lo conosco di vista. cammina spedito, e dietro di lui, a distanza di circa tre metri, cammina il suo cane. il tempo minimo in cui con la coda dell'occhio ho guardato quell'uomo con il suo cane è stato sufficiente all'uomo che io credo sia meridionale per sparire dalla terrazza bianca.

dietro le quinte

sto per uscire ma non mi muovo. sono in ritardo, ma qualcosa mi trattiene. mi siedo e scrivo un po'. guardo fuori e vedo prima di tutto il vetro della finestra puntinato e opaco. passo oltre. le punte di due pini alti una quindicina di metri fanno da quinta alla terrazza bianca di là della strada che da pochi giorni è tornata ad essere abitata. mi sono fatta l'idea che chi la abita provenga dall'Italia del sud. forse un insegnante. molti insegnanti dell'Italia del sud quando finisce la scuola se ne tornano al loro paese d'origine, e tornano al nord quando la scuola è già iniziata. non so come fanno. ma spesso lo fanno. lui fuma. al mattino presto, quando è ancora buio, quell'uomo che io penso sia meridionale fuma. credo si accenda la sigaretta appena dopo essere andato in bagno. o forse prima fuma e poi va in bagno. lascia una piccola luce accesa nella stanza e socchiude la porta a vetri. sta lì e fuma. quando fa freddo ed è ancora un po' buio si vede il fumo. o forse lo intuisco. so che ci deve essere perché quando uno fuma dalla bocca esce fumo, dunque io da qui guardo e credo di vedere anche il fumo, mentre vedo solo un uomo che regge una sigaretta accesa, e ogni tanto la porta alla bocca. è più corretto dire che ne vedo i gesti. c'è anche una tenda grigia arrotolata in alto sulla terrazza, una di quelle tende da sole tutte uguali nelle terrazze dei condomini. ma in quel condominio bianco con terrazze bianche non scorgo altre tende oltre la sua. e non l'ho mai vista srotolata a fare la funzione per cui esiste, proteggere dal sole. quando c'è il sole forte, d'estate, le tapparelle bianche sulla porta a vetri sono sempre tirate giù, e rimangono così per più di due mesi, perché in casa non c'è nessuno e la tenda esterna grigia rimane arrotolata. mentre scrivo guardo e vedo l'uomo che io credo sia meridionale uscire in terrazza. indossa una giacca della tuta blu con scritte bianche, rimane fermo immobile e fuma. non sapevo che fumasse anche dopo le otto, quando ormai il cielo è diventato chiaro. forse il martedì è il suo giorno libero. non ho mai visto altre persone uscire in terrazza con l'uomo che fuma, neanche in altri orari del giorno, quando attraverso la strada che passa davanti al condominio bianco. o c'è l'uomo meridionale che fuma, o la terrazza bianca resta vuota, con la porta a vetri chiusa.
 
 

scrivania


Coricate alla mia sinistra, due penne bic, una rossa e una nera, puntano le loro punte senza cappuccio in direzioni opposte. Quella nera sopra un post-it giallo con su scritto ‘il parco’ punta verso un contenitore di plastica trasparente pieno di fermagli di varie dimensioni. Quella rossa arriva quasi a toccare un foglio bianco contenente alcuni appunti presi a matita, nomi e un numero di telefono. Natura morta con cellulare e busta per occhiali, il quadro che si apre ancora più a sinistra. La busta, nera, è di quelle morbide, con i laccetti per chiudere, e uno straccetto per pulire le lenti che fuoriesce appena, di color arancione. Un evidenziatore giallo evidenzia tutto il suo peso sopra allo straccetto, di cui intuisco le pieghe. Il cellulare è quasi tutto nero, parallelo all’evidenziatore, e muto, per lo più. Il collo duole se mi giro ancora più a sinistra, dove scorgo la macchina fotografica, nella sua busta rigida, nera. Tutto questo nero. Invece il tavolo è bianco. Solido e bianco, dove appoggio i miei gomiti e scrivo, muovo le dita delle mani sulla tastiera, nera, e scrivo. E mentre sento le dita dei piedi intorpidite dentro agli anfibi vedo che scrivo movendo le dita delle mani sulla tastiera, nera, ma tengo tra l’indice e il pollice della mano destra una matita, nera, come mi servisse per scrivere, ma non è così, perché uso la tastiera. Nero. L’eterno silenzio senza futuro. Così Kandinskij nello ‘Spirituale nell’arte’. Indosso jeans neri, e un maglioncino color ghiaccio, con motivi floreali  in velluto, nero. Fossero almeno stati disegnati da Fortuny. Ho fatto di tutto per arredare questo posto con i colori più chiari. C’è pure la libreria, alta e magra, bianca, di un bianco Ikea, una cosa che qui dentro non c’entra, con libri scritti solo da donne, forse sono settantadue, e anche questo non c’entra, come non c'entro io con questo posto, ma ci entro. Poi l’occhio guarda sempre in basso, e vede nero. Pochi pezzi, tutti neri. 


la fiera del riso


Lo vediamo aggirarsi tra i tavoli a parlare con le persone e a gonfiare palloncini. F1 si sbraccia e gli fa cenno di raggiungerci. J. arriva al tavolo senza capire chi siamo, si vede dall’espressione un po’ interrogativa, ma si siede tranquillamente con noi. F1 lo saluta e lo chiama per nome, gli chiede se si ricorda di lui, della bicicletta che voleva vendergli, della mangiata di carne a casa nostra, di quando ha chiesto se poteva suonare la chitarra. J. ha la carnagione scura anche d’inverno, le guance dipinte a strisce gialle e rosse e ha un punto rosso dipinto sulla punta del naso. Indossa sempre lo stesso paio di occhiali gialli, enormemente sproporzionati e senza lenti, un cappello morbido a tuba multicolore, giacca e pantaloni a toppe coloratissime e scarpe enormi con la punta rotonda all’insù. I capelli lunghi, folti e brizzolati sono raccolti in una coda che si appoggia e rimane ferma dietro alle spalle. Il pizzo è curato, accorciato rispetto a quando l’abbiamo conosciuto, appena sotto al mento. È a questa fiera del riso con i suoi palloncini e la sua bicicletta gialla da clown, con la ruota davanti enorme e quella dietro piccolissima. Ha gonfiato un palloncino a forma di cuore e lo ha regalato alla signora che vende il risotto con carne. La signora in cambio gli ha allungato un piatto con riso e carne abbondanti. Anche per oggi il pasto è assicurato. F1e F2 lo guardano mentre mangia il suo risotto. Lo guardo e penso a quella domenica che io e F1 l’abbiamo invitato a pranzo mezz’ora dopo averlo conosciuto in piazza, a gonfiare palloncini colorati. Ha lo sguardo sempre serio. Anche allora avevo osservato che era un clown che non rideva mai. Mi dice che son passati due anni da quella volta che ha pranzato da noi. Mi chiede cosa ho fatto in questi due anni, se ho realizzato il mio progetto. Gli chiedo: “Quale progetto, J.?”. Si volta lentamente verso di me, mi guarda dritto negli occhi. Vedo il colore dei suoi, di un marrone rotondo. “Volevi realizzare la biblioteca di condominio” mi dice. “Ah, me ne ero scordata, mi stupisce che ricordi questa cosa!” rispondo abbassando lo sguardo e guardando il mio bicchiere vuoto. Mi dice: “Io sono un mostro, ricordo tutto. Allora? L’hai fatto?”. Io tentenno nel dare una risposta. Penso che non so dire cosa ho fatto negli ultimi due anni. Mi sembra di fare niente. Fatico a ricordare di aver vissuto. Stringo gli occhi, ci penso forte ma non vedo il mio nome scritto da nessuna parte, mi penso nell’aria, sono vento. Torno a guardarlo e dopo un po’ dico: “No. Non ho realizzato quel progetto”. Lui mi chiede: “Perché?”. Io ripeto a voce alta la sua domanda: “Perché non ho realizzato quel progetto? Perché .. perché ho cambiato, sono cambiata, forse, in fondo si cambia continuamente, un poco, tutti. Tu sei quello di ieri?”. J. mi passa una mano sulla spalla e accenna ad un mezzo sorriso con gli occhi: “Tu sei peggio di me”. Guardo F1 e F2 seduti di fronte a me dall’altra parte del tavolo, fermi in silenzio, in mezzo al frastuono di voci e suoni della fiera. J. continua a mangiare. Mentre mastica alza la testa e guarda F2 e gli chiede se anche lui è veneto. F2 risponde di no, che lui e F1 si sono conosciuti durante il servizio militare, che abita poco lontano da lì, da dove si svolge la fiera. J. lo guarda fisso e gli dice: “Io sono uruguaiano. Sto cercando di sbrogliare una matassa. A te, cosa ti manca?”. Avverto una scossa. Guardo F2 che sorride meccanicamente e gli risponde: “Tutto e niente”. Penso che J. non sa, non può sapere, quale sia il nome di “tutto e niente”, quale il nome della sua malattia, quali i suoni informi che uscivano da quella bocca, quali sguardi opachi, quale potenza cresceva in quel corpo che si irrigidiva, quanti e quali momenti hanno scandito i giorni e le notti di F2 e di sua moglie I. per vent’anni, quali dolcezze, quale disperazione avvolse i loro cuori, quella notte.
Decido in un attimo che sono triste.