Lo vediamo aggirarsi tra i tavoli a parlare con le persone e
a gonfiare palloncini. F1 si sbraccia e gli fa cenno di raggiungerci. J. arriva
al tavolo senza capire chi siamo, si vede dall’espressione un po’
interrogativa, ma si siede tranquillamente con noi. F1 lo saluta e lo chiama
per nome, gli chiede se si ricorda di lui, della bicicletta che voleva
vendergli, della mangiata di carne a casa nostra, di quando ha chiesto se
poteva suonare la chitarra. J. ha la carnagione scura anche d’inverno, le
guance dipinte a strisce gialle e rosse e ha un punto rosso dipinto sulla punta
del naso. Indossa sempre lo stesso paio di occhiali gialli, enormemente
sproporzionati e senza lenti, un cappello morbido a tuba multicolore, giacca e
pantaloni a toppe coloratissime e scarpe enormi con la punta rotonda all’insù.
I capelli lunghi, folti e brizzolati sono raccolti in una coda che si appoggia
e rimane ferma dietro alle spalle. Il pizzo è curato, accorciato rispetto a
quando l’abbiamo conosciuto, appena sotto al mento. È a questa fiera del riso
con i suoi palloncini e la sua bicicletta gialla da clown, con la ruota davanti
enorme e quella dietro piccolissima. Ha gonfiato un palloncino a forma di cuore
e lo ha regalato alla signora che vende il risotto con carne. La signora in
cambio gli ha allungato un piatto con riso e carne abbondanti. Anche per oggi
il pasto è assicurato. F1e F2 lo guardano mentre mangia il suo risotto. Lo
guardo e penso a quella domenica che io e F1 l’abbiamo invitato a pranzo
mezz’ora dopo averlo conosciuto in piazza, a gonfiare palloncini colorati. Ha
lo sguardo sempre serio. Anche allora avevo osservato che era un clown che non
rideva mai. Mi dice che son passati due anni da quella volta che ha pranzato da
noi. Mi chiede cosa ho fatto in questi due anni, se ho realizzato il mio
progetto. Gli chiedo: “Quale progetto, J.?”. Si volta lentamente verso di me,
mi guarda dritto negli occhi. Vedo il colore dei suoi, di un marrone rotondo.
“Volevi realizzare la biblioteca di condominio” mi dice. “Ah, me ne ero scordata,
mi stupisce che ricordi questa cosa!” rispondo abbassando lo sguardo e
guardando il mio bicchiere vuoto. Mi dice: “Io sono un mostro, ricordo tutto.
Allora? L’hai fatto?”. Io tentenno nel dare una risposta. Penso che non so dire
cosa ho fatto negli ultimi due anni. Mi sembra di fare niente. Fatico a
ricordare di aver vissuto. Stringo gli occhi, ci penso forte ma non vedo il mio
nome scritto da nessuna parte, mi penso nell’aria, sono vento. Torno a
guardarlo e dopo un po’ dico: “No. Non ho realizzato quel progetto”. Lui mi
chiede: “Perché?”. Io ripeto a voce alta la sua domanda: “Perché non ho
realizzato quel progetto? Perché .. perché ho cambiato, sono cambiata, forse,
in fondo si cambia continuamente, un poco, tutti. Tu sei quello di ieri?”. J. mi
passa una mano sulla spalla e accenna ad un mezzo sorriso con gli occhi: “Tu
sei peggio di me”. Guardo F1 e F2 seduti di fronte a me dall’altra parte del
tavolo, fermi in silenzio, in mezzo al frastuono di voci e suoni della fiera.
J. continua a mangiare. Mentre mastica alza la testa e guarda F2 e gli chiede
se anche lui è veneto. F2 risponde di no, che lui e F1 si sono conosciuti
durante il servizio militare, che abita poco lontano da lì, da dove si svolge
la fiera. J. lo guarda fisso e gli dice: “Io sono uruguaiano. Sto cercando di
sbrogliare una matassa. A te, cosa ti manca?”. Avverto una scossa. Guardo F2
che sorride meccanicamente e gli risponde: “Tutto e niente”. Penso che J. non
sa, non può sapere, quale sia il nome di “tutto e niente”, quale il nome della
sua malattia, quali i suoni informi che uscivano da quella bocca, quali sguardi
opachi, quale potenza cresceva in quel corpo che si irrigidiva, quanti e quali
momenti hanno scandito i giorni e le notti di F2 e di sua moglie I. per
vent’anni, quali dolcezze, quale disperazione avvolse i loro cuori, quella
notte.
Decido in un attimo che sono triste.
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