solo ti metti lì e guardi. guardi qualcosa che non hai fatto tu. guardi e
non serve che cerchi perchè hai già trovato. riconosci e ti riconosci,
ascolti tutto per bene, stai lì. ti alimenti di quel piacere che arriva a
far male, un piacere intenso che entra dagli occhi e ti prende, scoppia
dentro allo stomaco e si espande. e vorresti ingoiare quello che stai
guardando, averlo dentro, trattenerlo, farlo tuo. vorresti sì,
mangiarlo. non in parola, non in musica, non in natura. in pittura, la
voluttà. felice di desiderare ancora.
510
il canto misurato
S y l l a
Ho aperto la porta e
ho visto Sylla che mi aspettava al buio appoggiato al muro. Mi ha salutata con
un mezzo sorriso. 'Sono venuto a pagare' mi ha detto, 'come stai?'. L'ho
guardato entrare mentre richiudevo la porta: berretto di lana blu appena appoggiato
sulla testa, giacca impermeabile aziendale blu con scritte rosse, jeans grigi,
scarpe grosse marroni. Sylla è senza zigomi, ha labbra giganti, colore del
fango, e occhi spenti. Cammina lento. Quando sorride mostra i denti gialli e
con la lingua di un rosa acceso si inumidisce continuamente le labbra. Ha una
moglie che non lavora e deve mandare soldi in Senegal al resto della famiglia.
Ospita una persona a cui chiede una quota per riuscire a pagare il mutuo di 750
euro al mese. Fino a sei mesi fa faceva i turni di notte in una fabbrica che
produce rasaerba e prendeva uno stipendio buono, ora non più. Lavora nella
stessa fabbrica, ma di giorno e a orario fisso, dunque guadagna meno. Inoltre
da quando la moglie si è ricongiunta con lui, può ospitare solo una persona per
volta, così non ricava molto dall'affitto delle stanze, e questo incide sulla
sua possibilità di stare al passo con le spese condominiali, cosa che sta
facendo aumentare il suo debito progressivamente. L'ho incontrato per la prima
volta qualche anno fa, per un problema condominiale. Era comparsa una macchia
di umidità sul soffitto di un appartamento al piano terra in corrispondenza del
bagno dell'appartamento al piano di sopra, appartamento abitato da Sylla e da alcuni
coinquilini provenienti dal suo stesso paese. Mentre mi trovavo
nell'appartamento al piano terra con l'idraulico, mi è stato chiesto di salire
al primo piano e chiedere al proprietario di poter fare un sopralluogo nella
sua stanza da bagno. Ho salito a piedi una rampa di scale e mi sono avvicinata
alla porta di Sylla. Ho ascoltato se sentivo delle voci provenire dal suo
appartamento ma c'era silenzio. Ho suonato il campanello e ho atteso che qualcuno
venisse ad aprire la porta, ma non è venuto nessuno. Ho suonato una seconda
volta e ho atteso di nuovo invano, ma mentre stavo per andarmene ho sentito la
chiave girare e la porta aprirsi. Sono tornata vicino alla porta ma la persona
che l'ha aperta la teneva socchiusa, in modo tale da poter sbirciare
all'esterno senza permettermi di vedere niente oltre quella fessura, se non un pezzo
di ovale scuro con due occhi scuri, occhi che mi erano sembrati sì, un po‘ spenti.
Era Sylla. Mi sono presentata e gli ho spiegato che avevo necessità di entrare
a casa sua e di vedere il bagno per un problema di una perdita d'acqua
nell'appartamento al piano di sotto. Sylla rimaneva fermo sulla porta e mi
fissava con un’espressione umile, sembrava non capire quanto gli stavo dicendo.
Gli ho ripetuto in qualche modo il discorso scusandomi per il disturbo, e
avvisandolo che avrei dovuto far entrare anche un idraulico e un muratore. A
quel punto ha aperto un po' di più la porta e ho visto com'era vestito.
Indossava una tunica lunga fino ai piedi di un verde sgargiante, come il dorso
di una lucertola al sole, con ampie maniche bordate con ricami marrone e oro allo
stesso modo della scollatura a V che lasciava intravvedere una peluria grigia
sul petto, ai lati dello sterno. Un abbigliamento in forte contrasto con l’espressione
dimessa del suo viso. Ha aperto del tutto la porta e solo allora mi sono resa
conto che c'erano altre persone all'interno, quattro uomini neri, all’apparenza
più giovani di Sylla, vestiti con tuniche chiare, in cotone leggero, seduti a
terra sopra a grandi tappeti accostati che coprivano quasi tutta la superficie
del pavimento di quella stanza. Il resto della stanza era vuoto, tutte le finestre
erano chiuse, le serrande abbassate. Poca luce arrivava da una lampada poggiata
a terra. Gli uomini mi hanno guardata in silenzio. Ho salutato tutti ma nessuno
parlava e nemmeno si muoveva. Ho pensato che forse avevo interrotto un momento
di preghiera. Mi sono scusata ancora con Sylla per il disturbo e ho chiesto
dove si trovava il bagno. Mi ha indicato una direzione allungando il braccio e
tenendo lo sguardo basso, senza spostarsi e senza parlare. Ho chiesto se poteva
aprirmi le porte e qualche finestra, poichè anche il resto della casa era al
buio, nonostante fossero le primissime ore del pomeriggio. Anche l'aria sapeva
di chiuso. Sylla con lentezza mi si avvicinò e passò oltre, facendomi strada
verso il bagno. Accese qualche luce ma ancora non voleva saperne di aprire la
finestra. Raggiunto il bagno, ho chiesto se potevo aprire io la finestra. Sylla
disse di si. Mentre ero dentro al bagno sforzandomi di guardare solo i sanitari
e le piastrelle per cercare di capire se trovavo qualche traccia di acqua sul
pavimento o altrove, mi ha raggiunta l'idraulico che in modo molto rumoroso ha
decretato che il problema doveva provenire dallo scarico della vasca da bagno, e
che bisognava rompere le piastrelle per controllare. Ho spiegato allora a Sylla
che il condominio era assicurato e che l'assicurazione avrebbe provveduto a
risarcire i danni. Mentre parlavo con lui di questo cercando le parole più
semplici per farmi capire, l'idraulico mi abbandonò per scendere sul parcheggio
e prendere dal suo furgone alcuni attrezzi. In quel momento realizzai che ero
sola con cinque uomini che mi fissavano. Ero in fondo al bagno, spalle alla
finestra che avevo aperto e loro mi guardavano dalla porta, in silenzio. Da lì
non potevo uscire in quel momento, così, avendo esaurito l'argomento tecnico,
mi inventai di chiedere loro una cosa come 'E allora, come va la vita?'. Mi
rispose solo un uomo tra tutti, e mi disse perentorio, 'Male!'. Ho chiesto 'E
perchè va male?'. E lui rispose 'Perchè mancano le donne'. La conversazione si
chiuse su quelle parole, e io iniziai a contare i minuti nell‘attesa che
tornasse l'idraulico. Sylla si rivolse loro in una lingua che non ho compreso,
e gli uomini si allontanarono dal bagno verso un'altra stanza
dell'appartamento. Quella volta Sylla mi lasciò il suo numero di telefono. Da
quella volta se ha bisogno di qualcosa mi chiama e parla, si rende disponibile
se gli chiedo di collaborare, e viene in ufficio a pagare le spese di
condominio, come questa sera.
1 5 5 0 p a s s i
Un sottoportico con pavimento in
vecchie piastrelle rossicce e pilastri grigio chiaro da attraversare, sei
gradini da scendere, un vialetto tra due aree verdi alberate da percorrere, un
marciapiede da attraversare alla fine del vialetto, una strada da attraversare
una volta scesa dal marciapiede, un vialetto che inizia tra un campo da calcio
a sinistra e la recinzione di un condominio bianco a destra e che prosegue tra
la recinzione di una scuola materna confinante con il campo da calcio a
sinistra e la siepe di un altro condominio bianco confinante con il primo
condominio bianco a destra, un marciapiede sconnesso da imboccare tra una
strada a sinistra e un parco pubblico con alberi e panchine a destra, un altro
tratto di marciapiede rifatto da percorrere che costeggia un tratto di parete
di un centro commerciale a destra e la stessa strada di prima che prosegue a
sinistra, un pezzo di parcheggio del centro commerciale da attraversare,
strisce pedonali sulla strada da attraversare alla fine del parcheggio, cancello
d’ingresso a ovest del cimitero da oltrepassare, percorso pedonale su sassolini
bianchi all’interno del cimitero tra le tombe, cancello di uscita a
est del cimitero da oltrepassare, una strada chiusa da percorrere in senso
inverso, un marciapiede da imboccare sul ponte, un ponte da attraversare percorrendo
il marciapiede, marciapiede
da percorrere che prosegue per un primo tratto tra la siepe che costeggia la recinzione
dei campi da tennis a destra e la strada a sinistra, poi tra una siepe più alta
e fitta della prima che funge da recinzione alle vasche della piscina comunale
a destra e la strada di prima a sinistra, poi tra una facciata azzurra dello
stabile della piscina comunale a destra e sempre la stessa strada a sinistra, un
tratto di parcheggio della piscina comunale da attraversare giù dal marciapiede,
un altro tratto di marciapiede da imboccare che riprende oltre il parcheggio e che
prosegue lungo il lato nord della recinzione verde molto alta del parco giochi
a destra e sempre la stessa strada a sinistra, marciapiede da percorrere che
prosegue svoltando a destra lungo il lato est della stessa recinzione verde molto
alta del parco giochi a destra e una nuova strada a sinistra perpendicolare
alla precedente, strisce pedonali da attraversare verso sinistra e un nuovo marciapiede
da imboccare che procede tra la vetrina di una pasticceria a sinistra e una nuova
strada a destra, poi tra la vetrina di un ufficio a sinistra e la strada a
destra, poi tra la vetrina di un negozio di tecno copie a sinistra e la strada
a destra, poi tra il portone di ingresso di un condominio a sinistra e ancora
la strada a destra, poi tra la vetrina di un parrucchiere cinese con insegna
luminosa e intermittente a sinistra e sempre la stessa strada a destra, poi tra
la recinzione bassa di un gruppo di case a sinistra e la strada a destra, poi
tra la siepe alta con telecamera di una casa a sinistra e la strada a destra, poi
il marciapiede si allarga per contenere la ex pesa pubblica ora trasformata in
parcheggi e procede tra un tratto di siepe ancora più alta di una villa a
sinistra e ancora la stessa strada a destra, poi si apre uno dei parcheggi con pavimentazione in porfido della piazza da attraversare verso sinistra in direzione di un nuovo marciapiede,
marciapiede da percorrere che costeggia una pescheria a sinistra e il
parcheggio a destra, poi una pizzeria a sinistra e lo stesso parcheggio a
destra, poi un’agenzia di assicurazioni a sinistra e sempre il parcheggio di
prima a destra, una piccola curva del marciapiede da percorrere verso sinistra
e strisce pedonali da attraversare sulla strada in porfido verso destra in direzione dei portici
della piazza, un primo tratto di portico da imboccare che procede tra quattro
archi sorretti da pilastri a destra e in successione a sinistra una vetrina
chiusa di un negozio ristrutturato che precedentemente era una macelleria, la
vetrina un tabaccaio, due vetrine di un’agenzia di viaggi, una piccola galleria
che porta ad altri negozi all’interno di
una piazzetta interna scoperta, una vetrina di un bar, una vetrina di un
gelataio, strisce pedonali da attraversare fuori dal primo tratto di portico per
imboccare un secondo tratto di portico più lungo che procede tra file di archi
e pilastri rivolti verso la piazza che è un immenso parcheggio a destra e in
successione a sinistra la vetrina di un negozio di scarpe, poi la vetrina di un
negozio di calze, poi due vetrine di un altro negozio di scarpe, poi una piccola
galleria che porta ad altri negozi all’interno di una piazzetta interna coperta
più grande della precedente, poi una vetrina di un negozio di biancheria
intima, poi la doppia vetrina di un bar, poi la piccola ma doppia vetrina di un
negozio di abbigliamento, poi la vetrina di un altro bar, poi una seconda
galleria che porta verso una nuova piazzetta interna scoperta con negozi, poi
la vetrina di un negozio di scarpe, poi la vetrina di un negozio di biancheria
intima e costumi costeggiata da uno stretto camminamento che conduce a un
collegamento con la piazzetta scoperta di prima, poi la vetrina del Bar del
Centro con la porta di ingresso da oltrepassare per andare al banco e ordinare
un caffè.
d i q u e s t o e d i q u e l l o
Prendi ieri mattina, per
esempio. Camminavo sotto al portico della piazza, e come spesso
succede mentre vado al lavoro, che mi chiedo dove sto andando, me lo
sono chiesta anche ieri, sotto al portico della piazza.
Contrariamente ad altre volte, il tentativo di rispondere ha avuto un
brevissimo tratto di pensiero, nel senso che quasi subito, non so da
dove, mi è arrivata una risposta (annoto che al breve tratto di
pensiero ha corrisposto un tratto di camminata che mi ha permesso di
contare circa quattro o cinque pilastri del portico). Ma quello che
mi ha sorpresa, è che la risposta non è stata minimamente intaccata
dalla tristezza che sempre mi accompagna nei miei spostamenti. Anzi.
Si è trattato di una risposta soddisfacente, buona per me,
divergente al punto giusto. Ora che ne scrivo, ho ben presente la
sensazione che ne è scaturita, così come ricordo molto bene che da
quel momento in poi, dal momento in cui mi sono risposta, ho iniziato
a camminare più volentieri verso la meta, verso il mio ufficio, e i
negozi che scorrevano come sottotitoli alla mia sinistra, le vetrine
dei bar, le insegne delle banche e qualche passante che ho
incrociato, mi sono sembrati più piacevoli, quasi importanti.
Possibile, mi sono chiesta, che sia vero quello che penso? Può
davvero essere questa la risposta alla mia perenne domanda? Mi sento
vecchia, vecchia e parecchio in ritardo, eppure mi sono risposta
così. Se fossi il genere di persona che prende in mano la propria
vita, e vuole vedere cosa succede a fare veramente sul serio,
probabilmente la risposta si trasformerebbe in qualcosa di
interessante. Ma se non è così, se nonostante io abbia percepito
che la risposta è quella giusta, e l'ho capito perchè come poche
altre volte nella vita ho provato quel senso di coincidenza che non so spiegare, se non dovesse essere così dicevo, se io non
dovessi riuscire a spostare di un millimetro la mia posizione nel
mondo, nel mio mondo, e a fare di una risposta in una mattina
qualunque, La risposta, andrà a finire che starò peggio di prima,
di quando non riuscivo a rispondermi. Mi càpita, quando vedo un film
che racconta la storia di una persona in crisi con sè stessa, o
quando leggo un racconto su questo tema, di immedesimarmi e di
sentire che è di quello, solo di quello che mi interessa parlare,
salvo poi negarlo costantemente a me e agli altri, perchè mi scoccia
capire che in fondo il mio narcisismo non è mai morto, come mi
scoccia ammettere che tutti i miei tentativi di andare oltre, di
interessarmi ad altro, di cimentarmi in nuovi saperi, non sono
serviti poi a molto, se non a sopravvivermi. Tuttavia, in una mattina
qualunque, mentre camminavo sotto al portico della piazza per andare
al lavoro, ho iniziato uno dei miei dialoghi immaginari con persone
lontanissime dal mio mondo, che in questo caso era un laureato alla
Bocconi che si occupa di nuove tecnologie e di fabbrica 4.0, e gli ho
spiegato con malcelato orgoglio che la mia professione è finalizzata
a quello, proprio a quello.
d i g a m b e
Sul mio pigiama nuovo,
qua e là, piccoli aquiloni di diverso colore formano con le loro
code in movimento la parola 'love'. Anche i piedi invecchiano. Sono
immobile, seduta con gli occhi fissi, al buio, una tazza vuota nella
mano destra. Tocco con la mano sinistra i nevi sul collo. A tratti
crescono, sotto alle mie dita. So che ci sono sempre, sempre uguali,
spero. Ho sonno. A Portobello Road's volevo acquistare
quell'accessorio di abbigliamento da applicare per bellezza dal
ginocchio alla caviglia. Una specie di stivaletto senza piede, in stoffa imbottita e decorata, legato
con stringhe al polpaccio, simile al calzare romano. Poi ho visto da
un antiquario, o forse sarebbe meglio dire da un rigattiere, una
gamba da sarto, in legno liscio laccato bianco. Dal tallone alla
coscia era percorsa da una linea con disegnati i centimetri. Poggiava
su un piedistallo nero, quadrato, applicato alla sezione della
coscia. Calzari dal ginocchio alla caviglia e gamba da sarto. Se poi
penso a Spalato, ricordo che avevo notato la scorsa estate come tutte
le ragazze indossassero proprio calzari in stile romano. Qui in
Italia non ho notato questa moda. Non ho acquistato nè l'accessorio
calzare nè la gamba da sarto (avrei voluto farci un tavolino con la gamba da sarto,
applicando sopra al piede che si presentava rovesciato e piatto, un
piano d'appoggio). Ho portato a casa una lente con manico nero, finto ebano. Mi piacciono le lenti di ingrandimento. Ne ho tre. Quella
acquistata a Londra, una che apparteneva a mio padre, simile a quella
inglese ma un po' più grande e con l'impugnatura dritta, senza i
rigonfiamenti minimi di quella inglese e una terza lente che mi è stata donata e
viene da Venezia, in stile vagamente gotico. La lente vorrei
focalizzasse e ingrandisse le parole che scrivo. E vorrei ingigantire
le piccole cose, esagerarne le parti. Per questo provo spesso a
posarla qua e là, anche sulle mie gambe, a ingrandire le imperfezioni. Qua e là. Come la parola 'love' sul mio pigiama
nuovo.
dietro le quinte 2017 - 1
ieri mattina sono uscita di casa verso le 8.00. ho percorso a testa bassa come sempre il vialetto che porta al parcheggio delle auto e una volta arrivata al marciapiede ho alzato la testa perchè avvertivo una presenza. la presenza c'era in effetti, era lì, lì dove stava quando ne scrivevo e faceva quello che ha sempre fatto e per cui ho iniziato a scriverne. ho tenuto lo sguardo puntato sul terrazzo bianco al primo piano della palazzina di fronte al parcheggio fino a quando mi è stato possibile, fino a quando ho dovuto proseguire per raggiungere la mia macchina. volevo accertarmi che fosse lui, che non si trattasse di qualcun altro al posto suo, con la stessa posa, con la medesima immobilità. con un misto di commozione, gioia, stupore e vergogna, vergogna in primis perchè ho sentito qualcosa, ho constatato che sì, era proprio lui, sul terrazzo bianco al primo piano della palazzina di fronte alla mia stava fumando l'uomo che io credo sia meridionale, quel luchi cresime che mi aveva abbandonato, per cui non sono più riuscita a scrivere ogni giorno. luchi è tornato, mi sono detta, ma dove è stato tutto questo tempo, mi chiedevo mentre mettevo in moto la macchina, e soprattutto, cosa farà ora qui, ogni giorno?
d i n o t t e
cerco con i piedi le
parti fredde delle lenzuola, ma le zone del letto incontaminate dal
calore del corpo si esauriscono presto. sono stesa prona. non trovo più ristoro in
nessun punto, così fuoriesco con le gambe lateralmente dalla
trapunta. una volta fuori dalle coperte tocco con le punte delle dita dei piedi la pediera del letto in legno, per sentire il freddo anche lì. non
mi basta. faccio una torsione all'indietro del braccio sinistro e con
la mano afferro un lembo della trapunta che mi copre fin sopra le
spalle. riesco a scoprirmi fino a metà schiena, poi torno per un
attimo con le braccia lungo il corpo. guardo i numeri della sveglia
elettronica. sono quasi le tre del mattino. fino a un attimo fa
dormivo. ora sono irrimediabilmente sveglia. il caldo non accenna a
diminuire così esco da sotto alle coperte anche con le braccia, mi
arrotolo le maniche della maglia fin sopra ai gomiti e giro il
cuscino sottosopra per cercare il contatto con la parte fredda,
quella che non porta memoria della mia testa che ora è diventata
bollente e pulsa, come sono bollenti e pulsano la schiena, il collo, il viso, tutta la
mia pelle scotta, un calore che vuole evadere dalla gabbia-corpo. volto ancora il viso per
avere anche sull'altra guancia la sensazione del fresco della federa
del cuscino. il pezzo di pelle tra il naso e la bocca suda di più.
lo asciugo. sento il freddo della stanza che poco a poco mi si posa
sopra. lo accolgo per una manciata di secondi ma si fa subito intenso
e il contrasto caldo/freddo si fa irritante soprattutto sulla
schiena, così inizio a rientrare con le gambe e con i piedi, poi
faccio lo stesso con le braccia e con il busto. mi calmo un po'.
tengo ancora gli occhi chiusi ma sento un bruciore sotto alle
palpebre, il bruciore di quando ho sonno e non dormo, di quando le
due fessure oculari sembrano particolarmente secche e il movimento
delle pupille produce una sensazione di attrito. desidero dormire ma
ora sento freddo, sempre più freddo, un freddo diffuso, dappertutto,
sullo stesso corpo che pochi minuti fa era un vulcano in eruzione.
chiudo bene le coperte sul lato esterno del letto, avvicino la
trapunta più possibile a contatto con la schiena in modo che non
passi aria, mi copro fin sopra alla testa, mi raggomitolo e mi metto
su di un lato in posizione fetale. sto lì. sono tutta sotto alle
coperte ma realizzo presto che ho ancora le maniche della maglia con
cui dormo arrotolate fin sopra ai gomiti, così le srotolo fino ai
polsi e mi rimetto in posizione. sento qualche brivido. e come ogni
volta che sento freddo stando sotto a uno strato considerevole di
coperte non riesco a non pensare a chi sta per strada, coperto da
cartoni, se va bene da un sacco a pelo. se fossi per strada che
farei, mi dico, come sopporterei il freddo? allora provo ad
allungarmi e a rilassare il corpo, e mentre mi muovo il pensiero
torna all'immagine dei due senzatetto, un uomo e una donna, che ho
visto su un marciapiede a Londra seduti appaiati su due sacchi a pelo
preparati come un letto matrimoniale, nel mezzo di un via vai caotico
di persone che senza problemi ci giravano attorno. evidentemente
scaldati dai fumi dell'alcool hanno richiamato con delle grida un
ragazzotto che passava loro davanti, offrendogli il cartone con la
pizza che probabilmente qualcuno aveva donato loro. il ragazzotto
senza fermarsi ha preso al volo il cartone e continuando la sua
marcia ha iniziato a mangiare pezzi di pizza. nell'andarsene ha
ringraziato con un gesto della mano i due senzatetto, che hanno riso
forte e salutato nella sua direzione. ma non è di questo che volevo
scrivere. il mio corpo sul letto. di questo volevo scrivere. il mio
corpo sul letto che non dorme e non riposa. anche il respiro cambia
con il variare della temperatura. è come se andassi a pescare ogni
respiro dal punto più profondo del torace, per tirarlo fuori e
sostenere il peso del disturbo a quanto pare inevitabile fino al
successivo momento di tregua. è uno scompiglio quotidiano. uno
scompiglio e un obbligo al movimento. il movimento è anche degli
occhi. non riesco a rimanere con gli occhi chiusi, li apro sul buio,
sul soffitto, che non vedo ma so che c'è, sul lampadario che non
vedo ma so che c'è, li tengo aperti sulla finestra, che pure non
vedo ma so che c'è, come so che ci sono l'armadio con i vestiti e la
biancheria intima, il comò per le lenzuola e gli asciugamani più
grandi con sopra il leggìo e il fumetto di Vanna Vinci, il comodino
con il libro di Daniele Del Giudice che sto leggendo e quello di
Beckett e quello di Piovene e quello di Bernhard e quello di Gogol e
un volume sulla poesia del Novecento, e gli occhiali, l'astuccetto
con le due matite, la vetrina in noce scuro con all'interno le
sciarpe e i cappelli, le collane, qualche foto, le spille, la
scrivania con le lenti di ingrandimento, la colonnina con sopra la
scultura africana, lo specchio, il ritratto che mi fece Paolucci, il
mio quadro di Genova 2001, la marina di Massimo, il quadro della
Tanzania regalo di Claudio, il gabbeh sotto alla scrivania e i due
yastic come scendiletto, la poltroncina con sopra due paia di jeans,
la sedia con appoggiata una felpa. e un corpo adagiato sul letto,
pesante di un peso superiore al suo peso.
t r e n t u n d i c e m b r e
ho con me il libro. che è
un libro. l'ho scelto tra altri che stanno nelle librerie piccole
bianche. le librerie bianche da qualche giorno ospitano libri alla
rinfusa. non riesco più a metterli in un ordine che possa essere
sensato, perchè ne ho aggiunte tre e ho fatto degli spostamenti per
esigenze di spazio dalla libreria grande a quella in studio a quelle
in corridoio, così non so più bene dove sono i libri che cerco.
però questo l'ho trovato subito, perchè alcuni autori so sempre
dove sono, e t.b. era lì, dove pensavo che fosse. l'ho scelto perchè
ho terminato la lettura di un altro suo e voglio tornare sulla sua
scrittura. mi sono sistemata sulla poltrona verde con al collo la
coperta blu in ciniglia perchè da quando ho tagliato i capelli corti
sento freddo alla nuca, ma appena seduta, nell'aprire il libro e
iniziarne la lettura, ho pensato che avevo voglia di bere qualcosa di
caldo. mi sono alzata di scatto dalla poltrona verde, ho appoggiato
il libro sul bracciolo destro, mi sono diretta ai fornelli per
prepararmi un tè. ho prelevato un pentolino dallo stipetto della
cucina e l'ho riempito d'acqua fino all'orlo (e mentre la vita
testuale della lettrice in poltrona prende corpo, la segreteria
telefonica dell'ufficio mi avvisa che c'è un messaggio che ascolto,
distraendomi per un paio di minuti dalla scrittura) poi l'ho messo
sul fuoco. ho scelto una bustina di tè nero al mango e vaniglia. la
carta della bustina che ho scelto è gialla, ma nella scatola che
contiene altre bustine di tè, regalo di cristina, ci sono altri
colori che corrispondono ad altri aromi, come frutti di bosco,
arancia, tè verde. sono tornata alla poltrona e mi sono seduta. ho
preso il libro in mano per la seconda volta e ho tergiversato un po'
sulla quarta di copertina, pensando che non era però il caso di
attendere che l'acqua arrivasse al punto di ebollizione per iniziarne
la lettura, così l'ho aperto sulla pagina di inizio. nello stesso
istante in cui ho lanciato un'occhiata all'incipit, ho sentito il
desiderio di scaldarmi un po'. ho riappoggiato il libro sul bracciolo
destro della poltrona verde, mi sono alzata nuovamente e sono andata
in camera a prendere quella che chiamo la 'rotella' ovvero uno
scaldino in metallo a forma di disco piuttosto spesso, che se
caricato a corrente per almeno tre o quattro minuti rimane caldo per
ore. ho messo in carica la 'rotella' sulla presa di corrente a fianco
al televisore e sono tornata a sedermi sulla poltrona verde, ma
l'attimo dopo che mi trovavo seduta ho sentito il sobbollire
dell'acqua nel pentolino, così mi sono alzata per la terza volta
dalla poltrona verde e sono andata a spegnere il fuoco del fornello
acceso per il tè. ho sistemato il filtro di tè nero al mango e
vaniglia all'interno di una tazza bianca e ho versato lentamente
l'acqua bollente al suo interno, dopodichè sono tornata alla
poltrona. la poltrona verde non è molto comoda. più che altro
quando appoggio qualcosa, libri, occhiali, matita, sui braccioli devo
stare attenta ai movimenti che faccio perchè mi cade sempre un
pezzo, essendo i braccioli piuttosto stretti. il libro di t.b. che
voglio iniziare a leggere ha dimensioni ridotte. sono quattro
racconti di cui non ho mai terminato la lettura al tempo in cui
l'avevo iniziata all'incirca un anno fa. mentre sfoglio il libro
senza leggere ancora nulla, alzo la testa e vedo che la spia rossa
della 'rotella' si è spenta, segno che posso toglierla dalla presa
di corrente e inserirla nel suo involucro in tessuto di pile
arancione con cerniera, che serve a non ustionarsi con il metallo
caldo. mi alzo ancora dalla poltrona verde e procedo con le
operazioni dello scaldino. con la rotella sistemata sotto al braccio
mi dirigo alla tazza bianca per togliere il filtro del tè, lo getto
nella spazzatura e poi finalmente mi risiedo in poltrona. non ho
ancora posato la tazza a terra a fianco della poltrona che avverto
ancora una cosa che non mi lascia in pace (fuori dalla vita testuale
della lettrice ora in poltrona suona il telefono e guardo il display:
è un numero che non conosco e non rispondo): vedo che nel togliere
la spina dalla corrente e prelevare la 'rotella' non ho riavvolto il
filo al solito modo, e non l'ho messo sulla cassapanca ma l'ho
lasciato a terra, sopra al tappeto. mi alzo ancora dalla poltrona
verde. vado verso il filo a terra e lo attorciglio in tondo, poi lo
poso sulla cassapanca, così sono sicura di trovarlo, dovesse
servirmi ancora, dovessi protrarre la lettura fino a sera. sento gli
occhi un po' stanchi, perchè ogni operazione l'ho svolta tenendo
leggermente inclinata verso il basso la testa e guardando oltre,
perchè indosso occhiali da lettura che mi fanno vedere offuscato
tutto quanto mi sta attorno, tutto quanto non siano le parole che
leggo. mi risiedo con voglia di riposo sulla poltrona verde. ho tutto.
la tazza di tè nero al mango e vaniglia posata a terra a fianco
della poltrona sul lato sinistro, la coperta in ciniglia blu sul
collo, la 'rotella' trattenuta tra le gambe all'altezza delle
ginocchia, gli occhiali sul naso, il libro di t.b. appoggiato al
bracciolo destro della poltrona. ora: se bevo il tè caldo con
addosso gli occhiali mi si appannano le lenti, perchè soffio sulla
tazza e il vapore sale verso il viso, così decido di toglierli e di
appoggiarli sul bracciolo sinistro della poltrona. prendo la tazza da
terra facendo attenzione a non far cadere gli occhiali dal bracciolo
sinistro e inizio a sorseggiare il tè. tengo lo sguardo fisso a
terra davanti a me, oltre i miei piedi, sui disegni del bukara
pakistano che mi ricordano la stanza dove si trovava questo grande
tappeto nella casa di famiglia, il tavolo lungo in noce scuro dove
studiavo, i mobili attorno, il pianoforte che non ho mai suonato, i
quadri appesi. sento un caldo improvviso partire da dentro al torace,
salire verso il collo e invadermi il viso, un calore che fatico a
sopportare rimanendo ferma. appoggio a terra la tazza di tè dov'era
prima, sul lato sinistro della poltrona verde. le vampate dovute a
menopausa iniziate da qualche mese non mi danno tregua, neanche di
notte, e quando il calore finisce rimango con addosso una sensazione
di freddo e di quasi stordimento. sto assumendo da qualche tempo un
integratore a base di estratti di salvia e griffonia, quella specie
di fagiolo africano che dovrebbe aiutare la mia psiche in questo
procedere del corpo verso la vecchiaia tra un incendio e l'altro.
tolgo la 'rotella' da in mezzo alle gambe e la poso a terra, sposto la coperta in
ciniglia blu dal collo e la appoggio allo schienale della poltrona
verde, ma l'ondata di calore si propaga anche alla schiena così
scaravento con rabbia la coperta sul divano accanto alla poltrona
verde e lancio un calcio alla 'rotella'. del resto, mi dico, l'integratore con estratto di griffonia è un prodotto omeopatico, ci vuole tempo. mi arrotolo le maniche del maglioncino fin sopra ai gomiti.
sudo. sto lì. tra un po' so che avrò freddo e tornerò a mettere la
coperta in ciniglia blu sul collo, mi farò scendere le maniche del
maglione ai polsi e vorrò avere di nuovo tra le gambe lo scaldino. raccolgo con
rassegnazione la tazza da terra e finisco di bere il tè. la
riappoggio a terra, sempre sul lato sinistro della poltrona verde,
indosso gli occhiali e finalmente inizio la lettura di 'Goethe muore':
"La mattina del ventidue Riemer mi raccomandò, nell'imminenza
della mia visita a Goethe fissata per l'una e mezzo, di parlare per un
verso sottovoce, per l'altro tuttavia non troppo sottovoce nel
rivolgermi all'uomo che ormai si diceva semplicemente fosse il più
grande della nazione e nel contempo anche, a tutt'oggi, il più
grande in assoluto fra i tedeschi mai esistiti, certe cose egli
infatti le udirebbe adesso con una chiarezza che addirittura
sgomentava, altre invece...". eccolo qua: il trionfo della
virgola.
u n t e r r i b i l e n a t a l e
Sono
da poco passate le sette di sera. E' venerdì. Sono in cucina a
lavare la verdura. Apro il rubinetto e lascio scorrere l’acqua
fredda fino a riempire il cestello della centrifuga, dove ho
sistemato le foglie di radicchio rosso private della loro parte più
dura. La pentola per il brodo è già pronta sul fuoco con l'acqua e
le verdure. Stasera si mangia risotto. Faccio girare con piccoli
movimenti della mano il cestello con le foglie. L’acqua fredda mi
ghiaccia le dita. Guardo le mie dita muovere le foglie, guardo le
foglie girare, cerco con gli occhi se ci sono impurità o parti da
eliminare. Gioco con l'acqua. Cambio l'acqua e ripeto l'operazione di
lavaggio. Quei movimenti sono quasi automatici. Sto pensando se ho
lasciato qualcosa in sospeso in ufficio, se è tutto pronto, se ho
avvisato tutti gli interessati per la riunione di lunedì. Sollevo un
po' il cestello per vuotarlo e sento un tonfo. Viene dal piano di
sopra. Subito dopo, un lamento. E’ il vecchio, penso. Il pensiero
si sposta velocemente dalla mia agenda a quella che ormai è la
colonna sonora delle ore che passo in casa, quelle urla e quelle
offese che inizieranno a sentirsi tra poco. Poso il cestello con
l'acqua e le foglie dentro. Dò un altro colpetto al cestello per
farlo girare ma ci metto un po' troppa energia, l'acqua schizza fuori
e mi bagno la manica del maglione. Fanculo. Tolgo le mani dall’acqua.
Le foglie di radicchio continuano a girare nel cestello, per inerzia.
Mi sposto dal lavello verso i fornelli, abbasso la fiamma accesa per
il brodo, mi asciugo con movimenti lenti le mani, tampono un po' la
manica bagnata e mi fermo lì, con lo strofinaccio in mano. Vorrei
continuare le mie faccende ma ho i sensi allertati e il mio umore di
colpo è cambiato. Fisso un punto sul soffitto. Sto lì. Senza
volerlo, sto in ascolto. Sono sei anni che abito qui. A volte si
sentono rumori di qualcosa di metallico che cade sul pavimento, altre
volte, colpi sordi sul muro, ripetuti, che vanno avanti per ore. Il
disturbo maggiore si ha durante la notte, quando il vecchio si
sveglia e chiede da bere, o ha necessità di andare al bagno, o ha
freddo, o la luce accesa gli dà fastidio. Lo lasciano lamentarsi
fino a quando non sopportano più la sua voce, poi a turno, una volta
la moglie, una volta il figlio, lo raggiungono da un’altra stanza
con un passo pesantissimo, urlando contro di lui che è un maiale, un
maledetto, cose così. Il resto dei condòmini c'ha fatto
l'abitudine. Dicono che quand’era in salute il vecchio fosse un
uomo autoritario, che non lasciasse mai uscire di casa la moglie, che
fosse un despota e che, al contrario, avesse una vera e propria
venerazione per la figlia, che ora vive altrove con il marito e due
bimbi piccoli. Raccontano che per diversi anni, durante l’estate,
il vecchio aveva mantenuto l'abitudine di trascorrere qualche giorno
al mare con la figlia, lasciando a casa la moglie. Di suo figlio si
sa poco, pare sia disoccupato. Lui è rimasto a vivere con i
genitori. Lo incontro spesso in ascensore, quando torna con le buste
della spesa da qualche suo giro. Ha superato senz'altro i
cinquant'anni, è un uomo alto, molto pallido, capelli corti scuri e
basettoni lunghi. Ha un addome prominente che arriva prima di lui e
cammina con le punte dei piedi rivolte all'esterno. Non parla mai.
Solo buongiorno e buonasera. Veste sempre allo stesso modo. Nei mesi
estivi indossa solo pantaloni neri e camicia bianca. Quando fa
freddo, veste pantaloni neri, maglione nero, cappotto nero, scarpe
nere. Sia d’estate che d’inverno, dall'alba al tramonto, indossa
occhiali da sole, neri. Dicono che dal giorno in cui il vecchio è
stato colpito da un ictus rimanendo costretto a letto sua moglie si
stia vendicando con lui di ogni torto subìto. E’ impressionante
quanto quella donna sia piccola di statura, decisamente sotto alla
norma, con due occhi chiarissimi che guardano l’uno in direzione
opposta all’altro, uno verso destra e uno verso sinistra, e una
smorfia costante sulla bocca simile a disgusto per qualcosa. Il loro
pavimento, è il mio soffitto. One man's ceiling is another man's
floor. Ciò che ci lega, è ciò che ci divide. Io sento tutto.
Sento che quando la donna è vicina al vecchio, lui urla. Non so
perchè, ma l'attimo prima sta in silenzio, l'attimo dopo, urla. Lei
lo insulta. Lui piange. Arriva il figlio bestemmiando da un'altra
stanza. Si infuria con la madre e prende le parti del padre. Si
insultano. E via così, fino a quando cambiate le lenzuola o portato
il bicchiere o aggiunta una coperta o tolto un cuscino tutto si
acquieta per un po'. Altre volte càpita che sia il vecchio a
lanciare la provocazione. Forse sporca volutamente dappertutto o
rovescia l'acqua sulle lenzuola per costringere la moglie a pulire,
sta di fatto che quando viene lasciato solo per un po' lavora alla
dannazione altrui. Quelle volte, quando entra nella stanza e trova il
disastro, la moglie sfoga la sua rabbia piangendo mentre va su e giù
in corridoio da una stanza all'altra, e parla da sola dicendo che non
ce la fa più, in un sottofondo lamentoso che a un certo punto
esplode nella minaccia di dare fuoco al vecchio. Lui allora, per
tutta risposta, ride. Una risata di spregio, forzata, insistente,
fino a quando non ce la fa più, fino a quando perde il fiato. Allora
tossisce, e piange. Sei anni. Quel corpo in quella stanza sembra non
avere fine. Io detesto i rumori. Non voglio sapere nulla delle altre
famiglie. Invece sono capitata qui sei anni fa, al piano di sotto. La
mia tranquillità dipende dalla loro tranquillità. Il
malfunzionamento di quel corpo determina la mia irritabilità. Il
nostro, alla fine, è un vivere comune, e anche se la struttura
separa i livelli, il mio universo di sentimenti è costantemente
insidiato dal loro. Ho l'abitudine di mettermi a letto presto la
sera, con un libro, e ho usato più di una volta i tappi per le
orecchie per isolarmi dalle loro grida. Volano bestemmie, offese tra
le più pesanti che io abbia mai sentito, gonfie di vecchi rancori.
Mi hanno autorizzata, nel tempo, a immaginare di tutto. L'altra sera
il corpo del vecchio è volato giù dal quarto piano e si è
sfracellato nel cortile condominiale, allora la signora Ernestina
dell'appartamento al piano terra è uscita con la bocca spalancata,
urlante, senza dentiera, le braccia protese in avanti e i palmi delle
mani rivolte verso il corpo a terra, come una delle donne del
Compianto del Cristo morto, il gruppo scultoreo in terracotta di
Niccolò dell'Arca che ho visto nella Chiesa Santa Maria della Vita,
a Bologna, ma con addosso la sua vestaglia in panno morbido color
porpora e la retina rosa nei capelli, e dopo di lei è uscito Mario,
più lento perchè ha dolori alle gambe e non ce la fa e si è
avvicinato dondolante mentre Olindo emetteva dei lamenti e agitava le
braccia accompagnato dal suo fastidiosissimo cane, e sono usciti di
casa anche la signora Lidia e marito a seguito, e i signori del primo
piano con la puzza sotto al naso, erano tutti lì, attorno al
cadavere del vecchio finalmente in pace, chi con le mani sulla testa,
chi con il cellulare per chiamare ambulanza e carabinieri, e anche la
moglie era corsa giù ed era ferma lì, in silenzio, con le mani
chiuse in grembo, e i suoi occhi erano asciutti, come non fosse
successo nulla, sempre con la stessa smorfia stampata in viso, mentre
il figlio affacciato alla finestra guardava giù, e ripeteva un
movimento di sfregamento con le mani. Ho immaginato spesso una fine.
Questa volta però le urla non arrivano. Sento due giri di chiave a
una porta blindata del piano di sopra e poco dopo un suono di
campanello sul pianerottolo. Un breve silenzio. Poi sento parlottare.
Subito dopo qualcuno scende le scale rumorosamente. Suonano alla
porta. Alla mia porta. Vorrei far finta di non essere in casa, potrei
farlo, in fondo che ne sanno di chi c'è e di chi non c'è, e poi,
perchè suonano proprio a me, siamo in tanti in questo maledetto
posto.Vado ad aprire. Mi trovo davanti la moglie del vecchio. Non so
quale occhio guardare. Guardo un punto al centro della fronte. Mi
chiede se posso aiutarla, è sola in casa, suo figlio è uscito e suo
marito è caduto dal letto. Non si agita. Parla piano, con tono
rassegnato e un'espressione mortificata, di quelle esibite al
bisogno. Mi precede e salgo con lei le scale fino al quarto piano con
addosso un senso di stretta allo stomaco, adeguandomi alla sua
andatura che non è veloce come mi aspetterei, vista la situazione.
Arriviamo sulla soglia della porta di casa dove vedo appesa una
decorazione natalizia, di quelle che si vedono appese alle porte
delle abitazioni in questo periodo, in quasi tutte le porte, non
sulla mia. Entriamo nell’appartamento semibuio, lei mi fa strada
attraversando il soggiorno, accende la luce all'inizio del corridoio
e si dirige verso la stanza in fondo, dove c’è già Giuseppe, mi
dice, il vicino che abita con loro al quarto piano, allertato prima
di me. Entro nella camera. E' una stanza grande, dove però c'è solo
un letto piuttosto basso vicino alla finestra, attrezzato solo da un
lato con una sponda di quelle che ho visto nei letti d'ospedale
quando andavo a trovare un parente anziano, e un piccolo tavolo
accanto al letto stracolmo di scatole di medicinali, fazzoletti in
carta da naso usati e appallottolati uno sull'altro, una tazza, un
bicchiere, una bottiglia d'acqua riempita a metà. Si sente appena il
sobbollire del deumidificatore collegato alla presa sul lato opposto
all'ingresso della stanza. La luce, è quella minima di un'abat-jour
posata a pavimento. C'è un corpo a terra accanto al letto, il corpo
di uomo vecchio che non avevo mai visto e che ho sempre immaginato
sofferente. Giuseppe è accanto a lui e gli parla. Lui, si lamenta
piano. Ho paura, la stretta allo stomaco si fa più forte. E' nudo
sul pavimento a piastrelle arancioni effetto cotto, coperto solo da
uno straccio bianco che la moglie, stizzita, gli getta sul sesso un
attimo prima che io possa vedere. Non capisco perchè sia nudo. Forse
lo stava cambiando. Deglutisco, faccio cenno a Giuseppe di prendere
quel corpo inerme sotto le ascelle abbracciandolo, mentre io lo
afferro per le gambe. Il tempo dello spostamento mi sembra eterno.
Stringo senza rendermene conto le mani attorno alla poca carne delle
cosce del vecchio che lancia un grido. Gli ho fatto male. Non riesco
a controllare la mia forza, non so capire come tenerlo. Il vecchio
termina il grido con un lamento lungo, non una parola, solo la
lettera ‘A’ pronunciata lentamente, e ripetuta. E' lo stesso
lamento che sento sempre, da casa mia. Lo riconosco. Sono sei anni
che da casa mia sento quella lettera 'A'. Mi viene da riprovare la
stretta. Premo piano, prima con il pollice, poi con le altre dita,
infine stringo forte. Lui grida di nuovo. Si, è proprio lo stesso
lamento. La moglie urla contro di lui di smettere di urlare. Fingo
compassione. Guardo Giuseppe che mi guarda per le ultime manovre di
appoggio del corpo sul letto. La stanza è umida. Fatico a portare
fino in fondo ogni respiro per quell’odore di mentolo misto a odore
di piscio. Mi manca l’aria. Giuseppe gli solleva il lenzuolo al
petto. Poi fa lo stesso con la coperta. Il vecchio tiene la testa
reclinata verso i vetri appannati della finestra alla sua destra e
guarda il buio con occhi acquosi, l’espressione inebetita. Dalla
bocca storta verso il basso, gli scende una goccia di saliva. Nessuno
parla. Sua moglie ci accompagna alla porta e ci ringrazia, con fare
fintamente cerimonioso. Io e Giuseppe ci salutiamo e non facciamo
nessun commento. Scendo le scale, rientro in casa e vado diretta in
bagno a strofinami le mani con il sapone. Dopo qualche minuto sento
il rumore del motore dell’ascensore che si ferma al piano di sopra.
Un colpo di porta sbattuta. Il figlio è rientrato. Torno in cucina a
finire di lavare la verdura. Questa volta mi arrotolo le maniche del
maglione fin sopra ai gomiti. So che tra qualche giorno la figlia che
vive altrove con la sua famiglia arriverà in visita con i suoi due
bimbetti. Una volta all’anno arriva, per le feste di Natale. In
quei giorni, potrà capitare di incontrare qualcuno di loro in
ascensore e saranno sorrisi per tutti. Alle grida, che dalle finestre
del quarto piano arrivano normalmente fino al parcheggio, si
sostituiranno amabili conversazioni sul terrazzo, risate di bimbi,
corsette e scherzi tra la nonna e i suoi nipotini senza il minimo
screzio tra la moglie del vecchio e suo figlio. Lo scandalo delle ore
notturne non avrà modo di compiersi, l’orrore verrà seppellito
con grazia, nulla di ripugnante si svelerà a figlia e nipoti in
visita. Inizio a sminuzzare lo scalogno per il soffritto e penso che
sto aspettando l'arrivo di quei giorni, sto aspettando che arrivi la
figlia del vecchio. Saranno giorni di quiete, per tutti. Vorrei
pagarla, perché venisse più spesso, ma quella stronza si fa vedere
solo a Natale.
l a m e n t a z i o n i d e l m e s e d i s e t t e m b r e-R e n z o e L u c i a
Renzo è un uomo che ha
compiuto da poco trent'anni. Ha un lavoro che lo soddisfa, specie ora
che è stato nominato responsabile del reparto controllo qualità in
un'azienda di prodotti tessili. Ha un aspetto gradevole e ama essere
al centro dell'attenzione. E' sposato con Lucia, che ha la sua stessa
età. Lucia è incinta del loro primo figlio, fa la commessa in un
negozio di articoli sportivi ma ora è a casa dal lavoro perchè ha
necessità di stare a riposo, a causa di piccole perdite riscontrate
nell'ultimo mese di gravidanza.
Renzo e Lucia abitano in
un condominio formato da tredici appartamenti. Sono quasi tutte unità
immobiliari abitate da coppie giovani proprietarie della loro casa,
con o senza figli. Alla prima riunione di condominio, Renzo si è
fatto subito conoscere da tutti facendosi nominare rappresentante di
scala e membro del consiglio di condominio, per coadiuvare
l'amministratore nelle scelte e decisioni più complesse, come ha
voluto specificare. Ha promesso a tutti di impegnarsi per il rispetto
delle regole e per fare in modo che tutti abbiano cura del luogo in
cui vivono. Ha la mania dell'ordine e della pulizia. Pretende
dall'amministratore che siano affissi cartelli dappertutto con regole
da rispettare. Detesta gli extra comunitari perchè dice che sono
incivili, che cucinano cibi dall'odore troppo forte e che sono
persone che vivono nella sporcizia. Ritiene di essere nel giusto
quando afferma che chi non è italiano dovrebbe andarsene. Per
contro, Lucia alle riunioni non parla mai.
In uno dei pochi
appartamenti presi in affitto, precisamente quello al piano terra
sotto all'appartamento di Renzo e Lucia, vive una donna sola, con un
cane. La donna è di nazionalità romena, ma parla bene l'italiano.
E' un po' più giovane di Renzo e Lucia, ha preso quell'appartamento
in affitto perchè da poco tempo è stata trasferita in una fabbrica
vicina, dopo la chiusura dell'azienda dove lavorava come operaia per
un importante gruppo farmaceutico. Tutte le mattine la donna va al
lavoro e lascia il cane da solo in giardino. Renzo chiama
l'aministratore tutte le settimane, anche più volte in una
settimana, per comunicargli quello che succede in condominio, e si
lamenta costantemente del cane che abbaia. Arriva a riferire cose che
succedono anche in sua assenza, dato che per otto ore al giorno lui è
fuori casa, ma è certo che accadano in quanto la moglie sta in casa
tutto il giorno e gli riferisce ogni cosa. L'amministratore ha
cercato di assecondarlo quando possibile, invitando con richiami
scritti la donna romena a tenere il cane dentro all'appartamento
durante la sua assenza, oppure nel giardino sul retro dell'abitazione
dove non vedendo le persone passare possa abbaiare di meno. Altre
volte ha tentato di dissuadere Renzo dalla pretesa che tutto sia
perfetto. Da un po' di tempo però, Renzo ha iniziato a inviare
all'amministratore e-mail con foto di escrementi di cane in giardino,
peli pubici sulla macchina del condizionatore nel giardino della
donna romena, tappeti stesi ad asciugare che a suo dire rimarrebbero
esposti alla pubblica via per un tempo troppo prolungato sempre
nell'appartamento della donna romena e così via. Alle continue
richieste e telefonate l'amministratore ad un certo punto non ha
risposto più. Allora Renzo ha chiesto un appuntamento in studio
dall'amministratore per discutere il problema. Il giorno convenuto,
Renzo e l'amministratore si sono trovati faccia a faccia, ma a
parlare è stato solo Renzo. L'amministratore ha ascoltato a lungo il
suo condomino cercando di capire quale fosse il motivo di tanto
accanimento, essendo palese che quella situazione dava fastidio solo
a lui, dato che nessun altro condomino si lmentava mai dei
comportamenti del cane e della donna romena.
Il monologo di Renzo
durava ormai da una ventina di minuti, quando l'amministratore decise
di fargli una domanda. Chiese a Renzo se volesse proporre un'azione
concreta per risolvere quelli che a suo dire erano dei seri problemi,
un'azione che non fosse quella di avvelenare il cane come già aveva
proposto, o di imporre al proprietario dell'appartamento al piano
terra di risolvere il contratto d'affitto con la donna romena, poichè
ovviamente si trattava di idee impraticabili. Allora, per la prima
volta, Renzo si rivolse all'amministratore con meno arroganza,
chiedendogli di essere comprensivo nei suoi confronti, perchè,
disse, a lui non fregava assolutamente niente del cane, di quanto
abbaiasse, dei tappeti stesi e dell'inguardabile giardino della donna
romena. Il suo vero problema era la moglie, Lucia, che da quando era
rimasta a casa dal lavoro lo torturava con le sue esigenze di
silenzio, di decoro e non ultimo, con scenate di gelosia nei
confronti della donna romena, poichè la prima sera che si erano
incontrati nel vano scala, Renzo si era intrattenuto con lei a
chiacchierare, mentre Lucia era corsa al piano di sopra in preda ai
conati di vomito. Renzo continuò il suo racconto all'amministratore
che a quel punto aveva iniziato a spostare carte da una parte
all'altra della sua scrivania e a non guardare più in faccia il suo
condomino, in quanto dentro di lui il caso era già risolto. Renzo
volle proseguire a raccontare come a seguito di quella sera, il suo
rapporto con Lucia fosse diventato difficile, fatto di frecciatine e
ripicche, di richieste impossibili, di continue occasioni per litigi
causati da futili motivi. Disse che Lucia gli dava la colpa di
trascurarla, di non pensare al bene di lei e del futuro figlio, di
non amarla più come una volta. Lui aveva cercato in tutti i modi di
accontentarla ma non c'era niente che le andasse bene. E raccontò
all'amministratore, oramai rassegnato ad ascoltare fino in fondo il
povero Renzo, quello che poi era accaduto e non sarebbe dovuto
succedere. Una mattina, dopo che era uscito di casa per andare al
lavoro, Lucia aveva frugato nella tasca della sua giacca, quella che
aveva indossato la sera prima per uscire con gli amici dopo la
palestra, e vi aveva trovato un biglietto di ingresso per un locale
di lap dance. Al suo rientro dal lavoro, aveva subìto un processo in
piena regola e a nulla era valsa la scusa di dire che quel biglietto
era stato uno scherzo di un amico, che lui aveva dimenticato di
buttare. Lucia aveva covato il suo rancore per tutto il giorno e non
sentiva ragioni. A quel punto Renzo aveva ammesso tutto. Era stato
con gli amici al locale di lap dance, aveva visto due spettacoli ed
era rincasato anche un po' sbronzo. Lucia, incredula, si era sentita
male accasciandosi sul pavimento. Renzo la fece rinvenire e la portò
in ospedale per un controllo. Al pronto soccorso appurarono che si
era trattato di un semplice calo di pressione, ma decisero per il
ricovero per quella notte a titolo di precauzione. Renzo rincasò
solo. Sulla porta di casa trovò la donna romena che rientrava da una
serata al cinema. La donna romena chiese a Renzo come procedeva la
gravidanza di Lucia, e Renzo iniziò a parlare con lei dell'accaduto.
La donna romena invitò Renzo a entrare in casa per bere qualcosa di
caldo. Lo sventurato, accettò. L'amministratore decise che aveva
ascoltato abbastanza e si alzò in piedi. Disse a Renzo che non erano
problemi condominiali e lo invitò unicamente a non abusare più
della sua pazienza.
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