u n t e r r i b i l e n a t a l e

Sono da poco passate le sette di sera. E' venerdì. Sono in cucina a lavare la verdura. Apro il rubinetto e lascio scorrere l’acqua fredda fino a riempire il cestello della centrifuga, dove ho sistemato le foglie di radicchio rosso private della loro parte più dura. La pentola per il brodo è già pronta sul fuoco con l'acqua e le verdure. Stasera si mangia risotto. Faccio girare con piccoli movimenti della mano il cestello con le foglie. L’acqua fredda mi ghiaccia le dita. Guardo le mie dita muovere le foglie, guardo le foglie girare, cerco con gli occhi se ci sono impurità o parti da eliminare. Gioco con l'acqua. Cambio l'acqua e ripeto l'operazione di lavaggio. Quei movimenti sono quasi automatici. Sto pensando se ho lasciato qualcosa in sospeso in ufficio, se è tutto pronto, se ho avvisato tutti gli interessati per la riunione di lunedì. Sollevo un po' il cestello per vuotarlo e sento un tonfo. Viene dal piano di sopra. Subito dopo, un lamento. E’ il vecchio, penso. Il pensiero si sposta velocemente dalla mia agenda a quella che ormai è la colonna sonora delle ore che passo in casa, quelle urla e quelle offese che inizieranno a sentirsi tra poco. Poso il cestello con l'acqua e le foglie dentro. Dò un altro colpetto al cestello per farlo girare ma ci metto un po' troppa energia, l'acqua schizza fuori e mi bagno la manica del maglione. Fanculo. Tolgo le mani dall’acqua. Le foglie di radicchio continuano a girare nel cestello, per inerzia. Mi sposto dal lavello verso i fornelli, abbasso la fiamma accesa per il brodo, mi asciugo con movimenti lenti le mani, tampono un po' la manica bagnata e mi fermo lì, con lo strofinaccio in mano. Vorrei continuare le mie faccende ma ho i sensi allertati e il mio umore di colpo è cambiato. Fisso un punto sul soffitto. Sto lì. Senza volerlo, sto in ascolto. Sono sei anni che abito qui. A volte si sentono rumori di qualcosa di metallico che cade sul pavimento, altre volte, colpi sordi sul muro, ripetuti, che vanno avanti per ore. Il disturbo maggiore si ha durante la notte, quando il vecchio si sveglia e chiede da bere, o ha necessità di andare al bagno, o ha freddo, o la luce accesa gli dà fastidio. Lo lasciano lamentarsi fino a quando non sopportano più la sua voce, poi a turno, una volta la moglie, una volta il figlio, lo raggiungono da un’altra stanza con un passo pesantissimo, urlando contro di lui che è un maiale, un maledetto, cose così. Il resto dei condòmini c'ha fatto l'abitudine. Dicono che quand’era in salute il vecchio fosse un uomo autoritario, che non lasciasse mai uscire di casa la moglie, che fosse un despota e che, al contrario, avesse una vera e propria venerazione per la figlia, che ora vive altrove con il marito e due bimbi piccoli. Raccontano che per diversi anni, durante l’estate, il vecchio aveva mantenuto l'abitudine di trascorrere qualche giorno al mare con la figlia, lasciando a casa la moglie. Di suo figlio si sa poco, pare sia disoccupato. Lui è rimasto a vivere con i genitori. Lo incontro spesso in ascensore, quando torna con le buste della spesa da qualche suo giro. Ha superato senz'altro i cinquant'anni, è un uomo alto, molto pallido, capelli corti scuri e basettoni lunghi. Ha un addome prominente che arriva prima di lui e cammina con le punte dei piedi rivolte all'esterno. Non parla mai. Solo buongiorno e buonasera. Veste sempre allo stesso modo. Nei mesi estivi indossa solo pantaloni neri e camicia bianca. Quando fa freddo, veste pantaloni neri, maglione nero, cappotto nero, scarpe nere. Sia d’estate che d’inverno, dall'alba al tramonto, indossa occhiali da sole, neri. Dicono che dal giorno in cui il vecchio è stato colpito da un ictus rimanendo costretto a letto sua moglie si stia vendicando con lui di ogni torto subìto. E’ impressionante quanto quella donna sia piccola di statura, decisamente sotto alla norma, con due occhi chiarissimi che guardano l’uno in direzione opposta all’altro, uno verso destra e uno verso sinistra, e una smorfia costante sulla bocca simile a disgusto per qualcosa. Il loro pavimento, è il mio soffitto. One man's ceiling is another man's floor. Ciò che ci lega, è ciò che ci divide. Io sento tutto. Sento che quando la donna è vicina al vecchio, lui urla. Non so perchè, ma l'attimo prima sta in silenzio, l'attimo dopo, urla. Lei lo insulta. Lui piange. Arriva il figlio bestemmiando da un'altra stanza. Si infuria con la madre e prende le parti del padre. Si insultano. E via così, fino a quando cambiate le lenzuola o portato il bicchiere o aggiunta una coperta o tolto un cuscino tutto si acquieta per un po'. Altre volte càpita che sia il vecchio a lanciare la provocazione. Forse sporca volutamente dappertutto o rovescia l'acqua sulle lenzuola per costringere la moglie a pulire, sta di fatto che quando viene lasciato solo per un po' lavora alla dannazione altrui. Quelle volte, quando entra nella stanza e trova il disastro, la moglie sfoga la sua rabbia piangendo mentre va su e giù in corridoio da una stanza all'altra, e parla da sola dicendo che non ce la fa più, in un sottofondo lamentoso che a un certo punto esplode nella minaccia di dare fuoco al vecchio. Lui allora, per tutta risposta, ride. Una risata di spregio, forzata, insistente, fino a quando non ce la fa più, fino a quando perde il fiato. Allora tossisce, e piange. Sei anni. Quel corpo in quella stanza sembra non avere fine. Io detesto i rumori. Non voglio sapere nulla delle altre famiglie. Invece sono capitata qui sei anni fa, al piano di sotto. La mia tranquillità dipende dalla loro tranquillità. Il malfunzionamento di quel corpo determina la mia irritabilità. Il nostro, alla fine, è un vivere comune, e anche se la struttura separa i livelli, il mio universo di sentimenti è costantemente insidiato dal loro. Ho l'abitudine di mettermi a letto presto la sera, con un libro, e ho usato più di una volta i tappi per le orecchie per isolarmi dalle loro grida. Volano bestemmie, offese tra le più pesanti che io abbia mai sentito, gonfie di vecchi rancori. Mi hanno autorizzata, nel tempo, a immaginare di tutto. L'altra sera il corpo del vecchio è volato giù dal quarto piano e si è sfracellato nel cortile condominiale, allora la signora Ernestina dell'appartamento al piano terra è uscita con la bocca spalancata, urlante, senza dentiera, le braccia protese in avanti e i palmi delle mani rivolte verso il corpo a terra, come una delle donne del Compianto del Cristo morto, il gruppo scultoreo in terracotta di Niccolò dell'Arca che ho visto nella Chiesa Santa Maria della Vita, a Bologna, ma con addosso la sua vestaglia in panno morbido color porpora e la retina rosa nei capelli, e dopo di lei è uscito Mario, più lento perchè ha dolori alle gambe e non ce la fa e si è avvicinato dondolante mentre Olindo emetteva dei lamenti e agitava le braccia accompagnato dal suo fastidiosissimo cane, e sono usciti di casa anche la signora Lidia e marito a seguito, e i signori del primo piano con la puzza sotto al naso, erano tutti lì, attorno al cadavere del vecchio finalmente in pace, chi con le mani sulla testa, chi con il cellulare per chiamare ambulanza e carabinieri, e anche la moglie era corsa giù ed era ferma lì, in silenzio, con le mani chiuse in grembo, e i suoi occhi erano asciutti, come non fosse successo nulla, sempre con la stessa smorfia stampata in viso, mentre il figlio affacciato alla finestra guardava giù, e ripeteva un movimento di sfregamento con le mani. Ho immaginato spesso una fine. Questa volta però le urla non arrivano. Sento due giri di chiave a una porta blindata del piano di sopra e poco dopo un suono di campanello sul pianerottolo. Un breve silenzio. Poi sento parlottare. Subito dopo qualcuno scende le scale rumorosamente. Suonano alla porta. Alla mia porta. Vorrei far finta di non essere in casa, potrei farlo, in fondo che ne sanno di chi c'è e di chi non c'è, e poi, perchè suonano proprio a me, siamo in tanti in questo maledetto posto.Vado ad aprire. Mi trovo davanti la moglie del vecchio. Non so quale occhio guardare. Guardo un punto al centro della fronte. Mi chiede se posso aiutarla, è sola in casa, suo figlio è uscito e suo marito è caduto dal letto. Non si agita. Parla piano, con tono rassegnato e un'espressione mortificata, di quelle esibite al bisogno. Mi precede e salgo con lei le scale fino al quarto piano con addosso un senso di stretta allo stomaco, adeguandomi alla sua andatura che non è veloce come mi aspetterei, vista la situazione. Arriviamo sulla soglia della porta di casa dove vedo appesa una decorazione natalizia, di quelle che si vedono appese alle porte delle abitazioni in questo periodo, in quasi tutte le porte, non sulla mia. Entriamo nell’appartamento semibuio, lei mi fa strada attraversando il soggiorno, accende la luce all'inizio del corridoio e si dirige verso la stanza in fondo, dove c’è già Giuseppe, mi dice, il vicino che abita con loro al quarto piano, allertato prima di me. Entro nella camera. E' una stanza grande, dove però c'è solo un letto piuttosto basso vicino alla finestra, attrezzato solo da un lato con una sponda di quelle che ho visto nei letti d'ospedale quando andavo a trovare un parente anziano, e un piccolo tavolo accanto al letto stracolmo di scatole di medicinali, fazzoletti in carta da naso usati e appallottolati uno sull'altro, una tazza, un bicchiere, una bottiglia d'acqua riempita a metà. Si sente appena il sobbollire del deumidificatore collegato alla presa sul lato opposto all'ingresso della stanza. La luce, è quella minima di un'abat-jour posata a pavimento. C'è un corpo a terra accanto al letto, il corpo di uomo vecchio che non avevo mai visto e che ho sempre immaginato sofferente. Giuseppe è accanto a lui e gli parla. Lui, si lamenta piano. Ho paura, la stretta allo stomaco si fa più forte. E' nudo sul pavimento a piastrelle arancioni effetto cotto, coperto solo da uno straccio bianco che la moglie, stizzita, gli getta sul sesso un attimo prima che io possa vedere. Non capisco perchè sia nudo. Forse lo stava cambiando. Deglutisco, faccio cenno a Giuseppe di prendere quel corpo inerme sotto le ascelle abbracciandolo, mentre io lo afferro per le gambe. Il tempo dello spostamento mi sembra eterno. Stringo senza rendermene conto le mani attorno alla poca carne delle cosce del vecchio che lancia un grido. Gli ho fatto male. Non riesco a controllare la mia forza, non so capire come tenerlo. Il vecchio termina il grido con un lamento lungo, non una parola, solo la lettera ‘A’ pronunciata lentamente, e ripetuta. E' lo stesso lamento che sento sempre, da casa mia. Lo riconosco. Sono sei anni che da casa mia sento quella lettera 'A'. Mi viene da riprovare la stretta. Premo piano, prima con il pollice, poi con le altre dita, infine stringo forte. Lui grida di nuovo. Si, è proprio lo stesso lamento. La moglie urla contro di lui di smettere di urlare. Fingo compassione. Guardo Giuseppe che mi guarda per le ultime manovre di appoggio del corpo sul letto. La stanza è umida. Fatico a portare fino in fondo ogni respiro per quell’odore di mentolo misto a odore di piscio. Mi manca l’aria. Giuseppe gli solleva il lenzuolo al petto. Poi fa lo stesso con la coperta. Il vecchio tiene la testa reclinata verso i vetri appannati della finestra alla sua destra e guarda il buio con occhi acquosi, l’espressione inebetita. Dalla bocca storta verso il basso, gli scende una goccia di saliva. Nessuno parla. Sua moglie ci accompagna alla porta e ci ringrazia, con fare fintamente cerimonioso. Io e Giuseppe ci salutiamo e non facciamo nessun commento. Scendo le scale, rientro in casa e vado diretta in bagno a strofinami le mani con il sapone. Dopo qualche minuto sento il rumore del motore dell’ascensore che si ferma al piano di sopra. Un colpo di porta sbattuta. Il figlio è rientrato. Torno in cucina a finire di lavare la verdura. Questa volta mi arrotolo le maniche del maglione fin sopra ai gomiti. So che tra qualche giorno la figlia che vive altrove con la sua famiglia arriverà in visita con i suoi due bimbetti. Una volta all’anno arriva, per le feste di Natale. In quei giorni, potrà capitare di incontrare qualcuno di loro in ascensore e saranno sorrisi per tutti. Alle grida, che dalle finestre del quarto piano arrivano normalmente fino al parcheggio, si sostituiranno amabili conversazioni sul terrazzo, risate di bimbi, corsette e scherzi tra la nonna e i suoi nipotini senza il minimo screzio tra la moglie del vecchio e suo figlio. Lo scandalo delle ore notturne non avrà modo di compiersi, l’orrore verrà seppellito con grazia, nulla di ripugnante si svelerà a figlia e nipoti in visita. Inizio a sminuzzare lo scalogno per il soffritto e penso che sto aspettando l'arrivo di quei giorni, sto aspettando che arrivi la figlia del vecchio. Saranno giorni di quiete, per tutti. Vorrei pagarla, perché venisse più spesso, ma quella stronza si fa vedere solo a Natale.


l a m e n t a z i o n i d e l m e s e d i s e t t e m b r e-R e n z o e L u c i a

Renzo è un uomo che ha compiuto da poco trent'anni. Ha un lavoro che lo soddisfa, specie ora che è stato nominato responsabile del reparto controllo qualità in un'azienda di prodotti tessili. Ha un aspetto gradevole e ama essere al centro dell'attenzione. E' sposato con Lucia, che ha la sua stessa età. Lucia è incinta del loro primo figlio, fa la commessa in un negozio di articoli sportivi ma ora è a casa dal lavoro perchè ha necessità di stare a riposo, a causa di piccole perdite riscontrate nell'ultimo mese di gravidanza.
Renzo e Lucia abitano in un condominio formato da tredici appartamenti. Sono quasi tutte unità immobiliari abitate da coppie giovani proprietarie della loro casa, con o senza figli. Alla prima riunione di condominio, Renzo si è fatto subito conoscere da tutti facendosi nominare rappresentante di scala e membro del consiglio di condominio, per coadiuvare l'amministratore nelle scelte e decisioni più complesse, come ha voluto specificare. Ha promesso a tutti di impegnarsi per il rispetto delle regole e per fare in modo che tutti abbiano cura del luogo in cui vivono. Ha la mania dell'ordine e della pulizia. Pretende dall'amministratore che siano affissi cartelli dappertutto con regole da rispettare. Detesta gli extra comunitari perchè dice che sono incivili, che cucinano cibi dall'odore troppo forte e che sono persone che vivono nella sporcizia. Ritiene di essere nel giusto quando afferma che chi non è italiano dovrebbe andarsene. Per contro, Lucia alle riunioni non parla mai.
In uno dei pochi appartamenti presi in affitto, precisamente quello al piano terra sotto all'appartamento di Renzo e Lucia, vive una donna sola, con un cane. La donna è di nazionalità romena, ma parla bene l'italiano. E' un po' più giovane di Renzo e Lucia, ha preso quell'appartamento in affitto perchè da poco tempo è stata trasferita in una fabbrica vicina, dopo la chiusura dell'azienda dove lavorava come operaia per un importante gruppo farmaceutico. Tutte le mattine la donna va al lavoro e lascia il cane da solo in giardino. Renzo chiama l'aministratore tutte le settimane, anche più volte in una settimana, per comunicargli quello che succede in condominio, e si lamenta costantemente del cane che abbaia. Arriva a riferire cose che succedono anche in sua assenza, dato che per otto ore al giorno lui è fuori casa, ma è certo che accadano in quanto la moglie sta in casa tutto il giorno e gli riferisce ogni cosa. L'amministratore ha cercato di assecondarlo quando possibile, invitando con richiami scritti la donna romena a tenere il cane dentro all'appartamento durante la sua assenza, oppure nel giardino sul retro dell'abitazione dove non vedendo le persone passare possa abbaiare di meno. Altre volte ha tentato di dissuadere Renzo dalla pretesa che tutto sia perfetto. Da un po' di tempo però, Renzo ha iniziato a inviare all'amministratore e-mail con foto di escrementi di cane in giardino, peli pubici sulla macchina del condizionatore nel giardino della donna romena, tappeti stesi ad asciugare che a suo dire rimarrebbero esposti alla pubblica via per un tempo troppo prolungato sempre nell'appartamento della donna romena e così via. Alle continue richieste e telefonate l'amministratore ad un certo punto non ha risposto più. Allora Renzo ha chiesto un appuntamento in studio dall'amministratore per discutere il problema. Il giorno convenuto, Renzo e l'amministratore si sono trovati faccia a faccia, ma a parlare è stato solo Renzo. L'amministratore ha ascoltato a lungo il suo condomino cercando di capire quale fosse il motivo di tanto accanimento, essendo palese che quella situazione dava fastidio solo a lui, dato che nessun altro condomino si lmentava mai dei comportamenti del cane e della donna romena.
Il monologo di Renzo durava ormai da una ventina di minuti, quando l'amministratore decise di fargli una domanda. Chiese a Renzo se volesse proporre un'azione concreta per risolvere quelli che a suo dire erano dei seri problemi, un'azione che non fosse quella di avvelenare il cane come già aveva proposto, o di imporre al proprietario dell'appartamento al piano terra di risolvere il contratto d'affitto con la donna romena, poichè ovviamente si trattava di idee impraticabili. Allora, per la prima volta, Renzo si rivolse all'amministratore con meno arroganza, chiedendogli di essere comprensivo nei suoi confronti, perchè, disse, a lui non fregava assolutamente niente del cane, di quanto abbaiasse, dei tappeti stesi e dell'inguardabile giardino della donna romena. Il suo vero problema era la moglie, Lucia, che da quando era rimasta a casa dal lavoro lo torturava con le sue esigenze di silenzio, di decoro e non ultimo, con scenate di gelosia nei confronti della donna romena, poichè la prima sera che si erano incontrati nel vano scala, Renzo si era intrattenuto con lei a chiacchierare, mentre Lucia era corsa al piano di sopra in preda ai conati di vomito. Renzo continuò il suo racconto all'amministratore che a quel punto aveva iniziato a spostare carte da una parte all'altra della sua scrivania e a non guardare più in faccia il suo condomino, in quanto dentro di lui il caso era già risolto. Renzo volle proseguire a raccontare come a seguito di quella sera, il suo rapporto con Lucia fosse diventato difficile, fatto di frecciatine e ripicche, di richieste impossibili, di continue occasioni per litigi causati da futili motivi. Disse che Lucia gli dava la colpa di trascurarla, di non pensare al bene di lei e del futuro figlio, di non amarla più come una volta. Lui aveva cercato in tutti i modi di accontentarla ma non c'era niente che le andasse bene. E raccontò all'amministratore, oramai rassegnato ad ascoltare fino in fondo il povero Renzo, quello che poi era accaduto e non sarebbe dovuto succedere. Una mattina, dopo che era uscito di casa per andare al lavoro, Lucia aveva frugato nella tasca della sua giacca, quella che aveva indossato la sera prima per uscire con gli amici dopo la palestra, e vi aveva trovato un biglietto di ingresso per un locale di lap dance. Al suo rientro dal lavoro, aveva subìto un processo in piena regola e a nulla era valsa la scusa di dire che quel biglietto era stato uno scherzo di un amico, che lui aveva dimenticato di buttare. Lucia aveva covato il suo rancore per tutto il giorno e non sentiva ragioni. A quel punto Renzo aveva ammesso tutto. Era stato con gli amici al locale di lap dance, aveva visto due spettacoli ed era rincasato anche un po' sbronzo. Lucia, incredula, si era sentita male accasciandosi sul pavimento. Renzo la fece rinvenire e la portò in ospedale per un controllo. Al pronto soccorso appurarono che si era trattato di un semplice calo di pressione, ma decisero per il ricovero per quella notte a titolo di precauzione. Renzo rincasò solo. Sulla porta di casa trovò la donna romena che rientrava da una serata al cinema. La donna romena chiese a Renzo come procedeva la gravidanza di Lucia, e Renzo iniziò a parlare con lei dell'accaduto. La donna romena invitò Renzo a entrare in casa per bere qualcosa di caldo. Lo sventurato, accettò. L'amministratore decise che aveva ascoltato abbastanza e si alzò in piedi. Disse a Renzo che non erano problemi condominiali e lo invitò unicamente a non abusare più della sua pazienza.





d a l l ' a v v o c a t o

freccia a sinistra, parcheggio la ford proprio sotto all'ufficio dove sono diretta. ho appuntamento allo studio legale per una pratica di condominio. l'avvocato a cui ho dato il mandato ha seguìto anche altre pratiche per altri condomini, ci conosciamo già. suono il citofono. una voce femminile mi prega di salire al primo piano. scelgo di non usare l'ascensore. arrivo al primo piano e la segretaria dell'ufficio mi attende sulla porta, sorridente. mi chiede di attendere qualche minuto perchè l'avvocato sta terminando una telefonata. in realtà so che a L. piace farsi annunciare. infatti arriva dopo mezzo secondo, il tempo di fare il giro della scrivania e sbucare alla porta. mi guarda compiaciuto e stringendomi la mano esclama 'tutta in rosso oggi!'. specifico sforzandomi di sorridere che non è rosso ma tant'è, ci stiamo già avviando lungo il corridoio che porta al suo studio. mi accomodo di fronte alla sua scrivania sulla poltroncina a sinistra e lascio sulla poltroncina a destra le due mie borse gonfie di documenti, mentre lui chiude la porta alle mie spalle. non si parla mai subito della pratica in corso, così gli chiedo se sia già stato a Valencia come aveva programmato di fare il mese scorso. inizia a raccontarmi, in modo pacato, della bontà della sua scelta. mi spiega, aiutandosi con delle foto che fa scorrere sul suo smartphone, la struttura della città spagnola, e quando arriva a nominare il porto mi accomodo meglio sulla poltroncina per ascoltare, ma la mia eccitazione dura poco. l'avvocato mi racconta di come la zona del porto sia ben tagliata fuori dal resto della città, cosa che ha apprezzato particolarmente in quanto si sa, nelle aree portuali il degrado e la delinquenza sono sempre presenti. anzi, la parola 'degrado' la suggerisco io mentre lui la cerca guardando fuori dalla finestra. il resto del racconto sulla città, Calatrava, il polo tecnologico, non sono riuscita a seguirlo con attenzione perchè nella mia testa è partito un film, cosa che mi capita sempre più spesso e comincia a preoccuparmi. è notte, le strade sono bagnate. i vicoli che scendono al porto sono malamente illuminati da una luce gialla che proviene da piccole lampade dondolanti disseminate a una decina di metri l'una dall'altra, lungo il percorso che sto compiendo. sono sola, ho un portamonete in mano, fumo. dopo aver svoltato l'angolo di un'osteria con le serrande abbassate devo attraversare un sottoportico. lo imbocco e nel primo tratto non c'è nessuno. ancora qualche passo e sbucherei dall'altra parte, ma mi cade il portamonete. mi piego a raccoglierlo e quando alzo la testa ho davanti un uomo. è un tossico della zona, chiede soldi a chiunque. faccio per scansarlo ma mi si para davanti. ridacchia di me, mi dice che adesso devo vedermela da sola. io non parlo, e ancora avanzo portandomi sulla sinistra, verso il muro per andare oltre. l'uomo barcolla, mi lascia andare e ride. è il film di un ricordo, ma non ero a Valencia, quella volta. esco dal sottoportico e ho di nuovo davanti l'avvocato che mi sorride. 'occhiali nuovi?' chiedo. 'si!' mi risponde aggiustandoli sul viso. 'belli. dài che lavoriamo un po'.


t e r a p i a i n d i e c i m i n u t i - 4

oggi è cambiata la persona che mi segue nelle terapie. è un altro ragazzo. giampaolo è via, mi ha detto, ti seguo io. mi sembrano uguali. giovani. barbetta. più o meno gli stessi colori in viso, variazioni del castano chiaro. solo giampaolo mi pare abbia occhi chiari, mentre questo (non ricordo il suo nome anche se si è presentato stringendomi la mano) ha occhi scuri. è cambiata anche la gabbia. di fronte al corridoio dal quale arrivo. il tecnico di oggi mi dice che rimaniamo nella stessa postazione (io la chiamo gabbia) a fare tanto la laser quanto gli ultrasuoni. la bacinella oggi è verde acido. il lettino ha il cuscino per i piedi rosso scuro. anche sotto alla testa oggi ho un cuscino. di solito sono senza. l'acqua non è calda. direi quasi fredda. il tecnico è appena entrato a vedere il tempo. mancano cinque minuti. non mi aspettavo che rientrasse durante i dieci minuti di ultrasuoni. giampaolo non lo fa mai. ho avuto quasi vergogna che mi abbia vista mentre scrivevo sul moleskine. il giorno che ho iniziato le terapie giampaolo mi ha chiesto se nell'attesa volevo leggere una rivista. ho detto di si. poi, vista la rivista, che non aveva nulla da invidiare alle riviste che si trovano dalla parrucchiera, ovvero gossip e simili, ho deciso che avrei impiegato i giorni seguenti a scrivere. quando facevo i massaggi al collo dall'arabo israeliano nella sala d'attesa c'era unicamente la rivista 'Internazionale'. quella la sfogliavo volentieri. queste no. oggi impiegherò un po' di più a rivestirmi perchè ho scarpe e non ciabatte. ho fatto solo cinque sedute. questa è la sesta. eppure mi rendo conto che ho già sedimentato delle piccole abitudini. l'abitudine ai gesti. giampaolo non parla, e per il tempo necessario alla terapia non entra mai a controllare. attende fuori dalla gabbia che trascorrano i dieci minuti e quando la macchina emette un suono, tipo un piccolo allarme, per lui è il segnale ed entra. cambia il piede e mi lascia sola per altri dieci minuti. poi entra di nuovo e mi fa trasferire in un'altra gabbia per gli ultrasuoni. mi fa sedere sulla sedia. mi porta la bacinella con l'acqua, aspetta che io immerga i piedi e inserisce il dispositivo che va collegato alla macchina. accende la macchina, imposta il timer e se ne va per altri dieci minuti. prima di uscire però, mi prepara sul lettino un bel po' di carta per asciugare i piedi, cosicchè non devo aspettarlo una volta terminati i dieci minuti. con il senno di poi, devo dire che penso di lui che sia un po' sadico. quell'acqua bollente non era una svista. ne sono quasi sicura. il motivo non lo conosco. comunque lui non sa che io sono stoica, nel dolore. il tecnico nuovo è invece entrato nella gabbia ogni tre quattro minuti a controllare il tempo, dicendolo a voce alta. racconta a voce alta ogni cosa che fa. ti rende partecipe. e non ha preparato prima la carta. così quando è terminato il tempo l'ho aspettato, e mentre lui sistemava la macchina io mi asciugavo i piedi in sua presenza. piccole differenze. piccoli gesti che cambiano. ma in così poco tempo ho maturato delle aspettative sulle modalità di svolgimento. e quindi? niente.


t e r a p i a i n d i e c i m i n u t i - 3

oggi piove un po'. ho terminato la laser da qualche minuto. mi trovo nella gabbia a fianco per gli ultrasuoni con i piedi già in ammollo. dove ero io pochi minuti fa ora è entrata una signora che sento parlare con il tecnico del suo dolore alla spalla. ora sono iniziati i suoi dieci minuti e il tecnico è uscito. le gabbie hanno pareti che non arrivano al soffitto, così rimane aperta l'area superiore e si sentono i discorsi di tutti. c'è un tecnico che parla da quando sono entrata. non lo vedo. non so che faccia abbia parla con una paziente. le racconta di tanti suoi amici che lasciano l'italia per lavorare all'estero. sono ragazzi laureati che in altri paesi svolgono per qualche tempo qualsiasi tipo di lavoro, e riferiscono di non aver pensieri, di stare molto bene e di guadagnare meglio che in italia, motivo per cui non sono intenzionati a tornare. anch'io ho avuto per un po' di anni il mito del lavoro all'estero. tuttavia non so se sarei realizzata a passare otto ore a raccogliere verdura nei campi. odio la campagna. odio gli insetti e tutto il brulicare che non vedo ma so che c'è. lì sotto c'è. sarà anche redditizio, ma non fa per me. giuro. guardo i miei piedi in acqua. lo smalto rosso tiene ancora bene. spero duri fino alla fine delle terapie perchè non sono brava nell'applicazione, e andare dall'estetista è fuori discussione: mi annoia. del resto, è un fatto: ci metto un sacco di tempo e combino disastri, dipingo sempre anche la pelle oltre alle unghie, e spesso il ritocco è peggio dell'errore. devo ancora fare cinque sedute. in pratica tutta la prossima settimana. oggi stop.


t e r a p i a i n d i e c i m i n u t i - 2

oggi sono arrivata un po' in ritardo. ho chiamato per avvisare che avrei posticipato l'orario di dieci minuti e così è stato. quando sono entrata lo sguardo del tecnico che mi segue era severo. ha fatto il gesto di guardare l'orologio davanti a me. mi sono scusata, ma mi ha infastidito. ero al lavoro, mica a fare shopping. mi ha chiesto se ho un negozio. ho risposto che ho un ufficio e che quando si ha a che fare con il pubblico non sempre si può prevedere i tempi. tutto, qui al centro terapie, è fatto in serie e si svolge secondo tempi stabiliti: tot minuti a paziente e via. mentre ero stesa sul lettino a fare la prima delle due terapie, la laser, ho sentito che diceva a qualcuno al di là della parete: ho avuto un ritardo di una paziente oggi e ora mi trovo tutto sballato con i tempi. sballato è il sistema, dico io. non siamo robot. ma il centro deve fare soldi. ogni giorno, fiumi di persone porgono piedi, gambe, tronco, braccia, mani, testa, collo. tutto va messo al setaccio e ricomposto. non so come uscirò da questo ciclo di terapie. nutro qualche perplessità. spero davvero di sbagliarmi. oggi sono tornata sulla gabbia dove ho fatto gli ultrasuoni la prima volta. l'acqua oggi è fresca. non mi sto ustionando come l'altro ieri che sono uscita con un calzino rosa attorno alla caviglia. era il segno della pelle che dalla caviglia in su era fuori dall'acqua, dalla caviglia in giù, piede compreso, era dentro all'acqua bollente e davvero erano aghi dappertutto. le gabbie sono gabbie in alluminio. tutte uguali. misureranno tre metri per due e sono chiuse da porte scorrevoli.


t e r a p i a i n d i e c i m i n u t i - 1

i moduli quadrati bianchi si ripetono all'infinito sopra alla mia testa. la presa di corrente è attiva e collegata all'apparecchio che produce ultrasuoni, collegato a sua volta alla bacinella rossa che contiene acqua, che contiene i miei piedi. le unghie delle dita dei miei piedi sono dipinte con smalto rosso. indosso pantaloni verdi. la penna che uso scrive con inchiostro blu. quando termineranno i dieci minuti previsti per la terapia, potrò asciugare i miei piedi con la carta che il tecnico mi ha gentilmente fornito. la carta, bianca, è stata strappata dal rotolo che è agganciato al lettino, dove si stendono le persone che hanno bisogno di cure, come me. i miei zoccoli sono in finto nabuk marrone scuro, con una zeppa in finto sughero, piuttosto spessa. io, fingo di stare bene. la borsa che porto oggi è marrone. dicono che non sia più di moda abbinare la borsa alle scarpe. in ogni modo il topo (ho sbagliato, ho scritto topo) il top dicevo è striato, bianco e nero con anche un po' di rosso, tipo le macchie allungate che madre natura ha donato al mantello delle zebbre (ho sbagliato di nuovo, ho scritto zebbre con due b). il cicalino suona. tolgo gli occhiali, chiudo il moleskine, metto tutto in borsa, anche la penna blu, mi asciugo i piedi. me ne vado.


u n a s t r a d a i n u n q u a r t i e r e d o r m i t o r i o


è una diramazione che devia dalla via principale più grande e maggiormente trafficata.  è una strada che fa una svolta proprio di fronte a casa mia, procede dritta per circa 200 metri e poi prosegue in una curva dolce imboccando la via successiva, che prende un nome diverso da quello della via in cui abito. l’asfaltatura non è recente, si notano diversi rattoppi vicino al marciapiede e al centro della carreggiata, buche che quando piove diventano acquitrini. i pali dei lampioni, più alti degli alberi, sono disposti solo su un lato della via, lungo il marciapiede, e sono verdi, con il corpo illuminante rettangolare all’estremità superiore. se ne vede uno ogni cinquanta metri a partire dal bivio. immediatamente vicino all’imbocco del bivio c’è un parcheggio che può ospitare una ventina di auto e che costeggia la siepe del mio giardino condominiale con i pini e le magnolie. sono auto per lo più di media cilindrata, utilitarie, roba da italiano medio. dall’altra parte della via c’è un gruppo di condomini bianchi tutti uguali, a due piani, i cui giardini con alberi giovani sono separati da una recinzione bassa, in muratura, che si può oltrepassare senza fatica. a nord di queste costruzioni bianche si estende il campo da calcio con le due porte bianche, che confina con l’asilo nido, ora con le tapparelle abbassate, tutte molto colorate, e con una struttura polifunzionale attorno alla quale si concentrano molte delle attività del quartiere. di fronte al campo da calcio c’è un piccolo parco giochi, dove c’è uno scivolo posizionato su un’area sabbiosa, delle panchine sull’erba, dei cavallini a molla ancorati a terra, un’altalena, una struttura in legno colorato con una specie di ponte, fatto con corde e assi sospese, da attraversare per raggiungere un’altana sopraelevata e chiusa da una specie di palizzata tutt’attorno. in questo momento vi sono due biciclette abbandonate a terra una sull’altra, vicino a una panchina. il quartiere è poco lontano dal centro, una zona residenziale dove condomini anni ’70 di edilizia popolare si alternano a villette a schiera dello stesso periodo, e a poche costruzioni più recenti. il colpo d’occhio per chi arriva è quello di una zona circondata da molte aree verdi non recintate, attraversando le quali si passa da un condominio all’altro senza necessità di aprire e chiudere cancelli. in questo momento l’intera zona è assediata dal suono costante delle cicale, unico rumore udibile in assenza di traffico urbano. le tapparelle delle finestre dei condomini bianchi a destra della via sono tutte abbassate, anch’esse bianche, sbattute dalla luce del pomeriggio estivo, fortemente assolato. durante la notte c’è stato un forte vento, e ora le foglie cadute sono tutte ammucchiate lungo il bordo del marciapiede, tutte gialle e accartocciate, come fossero pop corn ancora da scoppiare, spinte ai margini della strada dal passare delle auto. quel giallo contrasta fortemente con il verde delle siepi e delle chiome foltissime degli alberi, poco propense a farsi penetrare dal sole. è una strada in un quartiere dormitorio, dove i colori sono pochi, ma decisi.



S o l i n

Il cielo è un azzurro pulito. Il sole pulsa. Ogni elemento prende forma netta, all’orizzonte. Si intravedono in lontananza perimetri di ieri sulla vallata ingiallita e un vuoto intermittente: antica sapienza del costruire, enormi massi sull’erba secca. Il mio andare è sempre uguale, meditativo. Supero una colonia di formiche che gira attorno a un piccolo arbusto e procede verso un cumulo di pietre ostinate. L’ombra mi segue e fa quello che ho fatto. Passi sui sassi. Distese di ulivi segnano i confini verso sud. Arsura di pieni rocciosi, alle spalle. La camminata è lunga, a tratti in leggera salita. L’aria è ferma. L’assedio delle cicale è costante. Sono l’unica visitatrice nel nulla, poco dopo le otto del mattino. Fa già molto caldo. Mi fermo a togliermi la maglietta. La piego meglio che posso e la metto dentro allo zaino. Poi infilo la canotta e rimango qualche minuto all’ombra di un cespuglio, nei pressi dei resti della Basilica cimiteriale. L’area archeologica è vasta e nel percorso per raggiungere i siti fotografo resti di lapidi, iscrizioni, sarcofagi. Per un momento, ripenso ad alcune amicizie che non ho più. Mi avevano dato un soprannome per il mio pallore, quello ‘scoperchiate’ allusivo alle tombe. Riderebbero se sapessero dove mi trovo. Raggiungo l’anfiteatro e lo percorro sostando più a lungo nei punti al riparo dal sole. E’ imponente. Mi godo il silenzio secco. Cerco di cancellare mentalmente la presenza di un allestimento per spettacoli, un palcoscenico in legno sorretto da una struttura di tubolari in ferro. Guardo a lungo, leggo un po’. Scatto ancora un paio di foto e riprendo il cammino per raggiungere gli altri siti. E’ passata circa un’ora dal mio ingresso all’area archeologica. Il caldo mi mette alla prova. Ho la testa bollente, la pelle del viso scotta. Sudo. Arrivo in prossimità dell’area dove si trovano i resti delle Basiliche del Centro Episcopale. Il ground-plan non lo prevede, ma mi imbatto in un disco di legno del diametro di circa mezzo metro incastrato a terra, in piedi, tra le pietre. Mi avvicino e leggo le poche lettere scritte a pennello in verde: Bar open. Bar aperto. E dove? Non c’è nulla qui. Alzo la testa e punto lo sguardo verso una siepe che disegna un angolo. Effettivamente non vedo cosa ci sia oltre, così mi avvio all’estremità del vialetto che la costeggia e vi trovo un’apertura. La geometria mi sorprende. Varco lo stretto passaggio sulla sinistra e scendo due gradini. C’è un grosso cane meticcio a pelo corto, color del miele, sdraiato all’esterno della sua cuccia all’inizio di un filare di ulivi, a destra dell’ingresso, che appena mi vede si alza in piedi ma non si muove verso di me, perché è alla catena. A sinistra dell’ingresso, una pavimentazione leggermente sconnessa in pietra ed erba verde conduce verso uno spazio protetto dal sole da un pergolato di vite. Qua e là in una specie di giardino ci sono massi cilindrici simili a parti di colonne, pietre e pezzi di tronchi come sgabelli, alcuni con una pietra liscia rettangolare posata sopra come piano d’appoggio. Adocchio uno spazio in ombra protetto dal sole da un pergolato di vite, e attrezzato con due tavoli in legno in fila, uno laccato verde e l’altro in legno naturale, sedie e panche una diversa dall’altra. Sulla sinistra, sempre in ombra, vi sono un camino in pietra e sassi, un lungo piano d’appoggio anch’esso in pietra bianca, una struttura che potrebbe somigliare a un forno rudimentale con sportellino in metallo, sopra al quale, un po’ nascosta dalle foglie della siepe, è posizionata una cisterna ingiallita che contiene acqua, collegata a un lavandino in pietra da un tratto di gomma piuttosto lercia. In linea con il lavandino, altre rientranze in pietra bianca che formano nicchie di diverse dimensioni. Di fronte, un muretto in pietra costituisce quello che potrebbe essere il bancone di un bar, con sgabelli in metallo dorato, qualche bottiglia, qualche vaso, una radio spenta. Ancora oltre, cataste di legna all’interno di un ricovero a due piani, in pietra e sassi. La pietra bianca crea un riverbero di luce intenso. Mi dirigo a sedermi sotto al pergolato. Un uomo tra i quaranta e i cinquant’anni esce dall’ombra e accenna a un saluto, Welcome!
Mi avvicino e chiedo, Is open?
Yes! Open!
L’uomo è abbronzato, indossa solo un paio di boxer da mare bianchi con fiori arancioni, è scalzo, ha la testa rasata, un orecchino sul lobo sinistro e porta un Tau al collo. Il fisico è tonico. Si muove un po’ attorno, aspetta che io mi sieda. Scelgo di sistemarmi su una panca in fondo al tavolo in legno naturale, perché da lì posso vedere un po’ tutto, fino al campo di ulivi. Chiedo se posso avere un bicchiere d’acqua e un caffè.
Mineral water and turkish coffee, yes! Il suo tono è perentorio, in ogni cosa che dice. Lo sguardo è serio, il sorriso è lieve, la faccia, lievemente malandrina.
Si allontana verso una delle nicchie in pietra vicino al lavandino e lavora un po’. Mi guardo attorno e capisco che quel posto è anche un’abitazione, con uno spazio alle mie spalle stretto e lungo, cieco, sempre in pietra, in fondo al quale vedo un vater per il bagno, circondato da pavimento a soffitto da utensili vari su mensole. Adiacente al bagno c’è una stanza buia del cui interno riesco a vedere solo un letto sfatto con coperte nere. L’uomo arriva al tavolo e mi porta il bicchiere d’acqua e una tazza grande, con il caffè.
I don’t like espresso! Mi dice.
Thank you. What’s your name?
Ivan! I’m a fishman!
A fishman?
Yes! A fishman.
Ci parliamo come fossimo Tarzan e Jane. Si allontana e si dirige verso la cuccia del cane. Lo libera dalla catena e il cane, scodinzolante, corre verso di me. Porta un collare largo, con due file di punte.
His name is Don, as Don Corleone! Mi dice ridendo.
Accarezzo Don che dimostra docilità. Decide di passare sotto alle mie gambe per infilarsi sotto al tavolo, non faccio in tempo a spostarmi che mi striscia le punte del collare lasciandomi un ricordo fisico. Ivan si racconta a tratti. Mi dice che era un addetto all’escavatore in un’azienda edile. Ha fatto quel lavoro per ventidue anni. Poi, basta. Vuole stare in pace. Ogni mattina si alza e va a correre sulla montagna. E il Don sta sempre con lui. Vive di pesca, ora. Accompagna le parole con gesti delle mani e delle braccia. Non sta mai fermo. Sembra un grosso felino in attesa di una preda. Noto che ha due tatuaggi, uno più grande sul bicipite sinistro e un altro sul bicipite destro. Gli chiedo cosa raffigurano.
A shark! And a woman!
The same, dico io provocandolo.
You, said! Mi dice serio puntando il dito verso di me. Poi ride.
Mi bevo l'acqua appena frizzante aspettando che i fondi del caffè si depositino sulla tazza, mentre lui passeggia intorno, prende una ciotola, stacca dei grappoli d’uva nera dalla pergola di vite e me li offre. Quando non si rivolge a me pronuncia continuamente a bassa voce alcune parole guardandosi attorno, come un mantra. Alla fine riesco a sentirle: slow life, white wine, and guitar.
Poi mi si rivolge ancora: You call me for eat fish. Mi porge un biglietto da visita dove c’è un numero di telefono e un’immagine di piatti di pesce alla griglia.
Thank you, dico. Soffio sul caffè per intiepidirlo. Lo bevo a piccoli sorsi. E' buono.
Stacca una grossa conchiglia che si trova appesa con altre dalla parete fatta con una tenda in bamboo vicina al mio tavolo e me la porge, indicandomi di avvicinarla all’orecchio, per sentire il mare. Ascolto ‘il mare’ e gli sorrido.
Mi dice che intende costruire un tetto fisso. Gli chiedo in che modo, e mi risponde che c’è tanto materiale utile lì attorno. Di colpo mi ricordo che ci troviamo nel cuore di un’area archeologica. Poi cambia discorso, May be it rain, this evening.
Is open here in the evening? Chiedo.
Always open, you call me.
Ho finito di bere il mio caffè. Pausa finita. Decido di muovermi. Mi allungo sotto al tavolo e faccio una carezza al Don, che sta dormendo sdraiato. Pago il conto, saluto Ivan con una stretta di mano e lo ringrazio. Allarga le braccia, piega un po’ la testa, See you.

Riprendo la mia camminata sotto al sole cocente, in direzione delle terme civiche. Ancora passi sui sassi. Mi accompagna una nenia del pensiero: slow life, white wine, and guitar.


D.



D. arrivava verso le undici di sera alla ‘Locanda’. Era sempre fumato. La sua pelle, i suoi vestiti rigorosamente neri, i suoi capelli, tutto era avvolto da una nuvola aromatica. Salutava con gentilezza l’oste e attendeva il suo benestare bevendo un bicchierino. Ricevuto il cenno di consenso ringraziava, si dirigeva nella sala principale quando ancora i clienti erano seduti ai tavoli per il fine cena e si accomodava al piano. Indossava come fosse un rito i suoi occhiali scuri, dondolava un po’ sul seggiolino cullando un’idea, alzava il mento inspirando e iniziava ad appoggiare le dita sui tasti. D. non sapeva suonare il piano, ma lo suonava ogni sera, alla ‘Locanda’. Nessun cliente si è mai lamentato. Quei suoni garbati erano musica, la sua. Accarezzava i tasti con una delicatezza che faceva a pugni con la sua corporatura robusta e con le sue mani rozze, accompagnando le note con movimenti ondeggianti del corpo. Era visibilmente trasportato altrove da quella musica. Quel suo stato di grazia andava avanti per ore, di solito fino alla chiusura. Una notte gli ho scattato una foto al di là del vetro. Ne è uscita un’immagine sfocata, una specie di scia umana in bianco e nero, al pianoforte. Agli amici è rimasta la sua scia. Lui se ne è andato.
(28/08/16 dieciminutichenonsosedureranno)



d i a c q u e, i n d i e c i m i n u t i


mare poco, prevalentemente per compiacere chi sta con me, ma ora in moto è molto meglio, per lo meno si corre. lago, per carità, lo detesto. fiume si, m'acchiapperebbe assai, lo trovo inquietante al punto giusto, mi rasserena per questo, ma non ci vado mai. laguna. ecco. quando me la trovo davanti, non posso fare a meno di apprezzare. il tutto ha a che fare con lo sguardo, credo. quando desidero, lo sguardo continua a cercare, e nel fiume, quelle poche volte che l'ho incontrato, ho sempre cercato qualcosa. si muovono domande nell'acqua del fiume, magari non grandi domande. domande. la parola domanda. vado a guardare l'etimologia e trovo che si tratta di una parola delicata, priva di aggressività, più propriamente, ciò che viene affidato, il conferimento di un desiderio da esaudire. anche il libro che sto leggendo è scritto con delicatezza. (27/08/16 dieciminutichenonsosedureranno)